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La Prima Lettura ci racconta la vita delle prime comunità cristiane. Lungi dall’essere una rievocazione da “età dell’oro”, ci riporta però allo “spirito delle origini”, in cui la novità del cristianesimo si faceva strada, non senza qualche difficoltà, tra il giudaismo e la civiltà dell’impero romano.

Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno (At 4,34-35).

È interessante notare l’imperare del volontarismo. Non ci sono espropriazioni in corso: come è sottolineato dal lascito volontario di Giuseppe, riportato nel finale del brano, si tratta di una libera scelta, nata in molti di fronte alla constatazione dei bisogni altrui di cui ci si accorgeva.
La spoliazione è un invito, mai un obbligo; un’opportunità, una scelta, mai un’imposizione. È il suggerimento che, solo nella libera condivisione, è possibile assaporare quella pace che proviene dal ritenersi tutti parte di un’unica famiglia, dalla quale nessuno si senta escluso.

 Il brano della Seconda Lettura è il celeberrimo “inno alla carità” di 1Corinzi 13:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine (1Cor 13, 1-8)

A fronte della tentazione di una fede modello “fuoco d’artificio”, alla ricerca del sensazionalismo, l’Apostolo ne contrappone una basata sull’amore concreto, attivo, disposto ad impegnarsi in prima persona, anche quando ciò comporta un sacrificio, un mettersi al secondo posto, accantonando l’orgoglio e disponendo il proprio cuore all’impegnativo esercizio che il perdono richiede.
Se san Paolo ci mostra una “carta d’identità dell’amore, a partire da ciò che (da solo) non è in grado di rappresentarlo, fino a designarne le caratteristiche, ci rimane, però, una domanda: come posso fare per amare, secondo il modo descritto dall’Apostolo?

La risposta si trova nel Vangelo:

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri
(Gv 13,34).

È Gesù a parlare, ai propri apostoli, durante l’Ultima Cena. È un po’ il suo “testamento spirituale”, tanto nei capitoli dal 13 al 17, troviamo diversi concetti che si rincorrono, fino a ripetersi diverse volte: è normale, quando sai che il tuo tempo è ormai scaduto e comprendi che è importante puntellare i tuoi discepoli sui capisaldi che serviranno loro quando non sarai più al loro fianco, com’eri prima.
È interessante rilevare come l’amore di Cristo sia completamente gratuito. Come l’onda del mare: ci precede, ci sorprende, ci sommerge, non ci chiede il conto né la restituzione.
Si racconta di una persona che chiese a Gesù quanto la amasse. Gesù distese le braccia sulla croce, dicendo “Tanto così”, poi morì. Ecco perché la misura dell’amore è amare senza misura (De diligendo Deo, S. Bernardo di Chiaravalle). L’amore non è commisurato sui limiti umani. Lo sguardo di Gesù si rivolge a noi con una fiducia che va oltre ogni logica: è il Suo amore la misura, oltre che la sorgente, di ogni amore possibile. C’è un canto, che spesso accompagna le liturgie del matrimonio, che mette i brividi: s’intitola Come ti ama Dio (canto AGESCI). Possiede la forza prepotente dell’utopia, l’ambizione umile della volontà e la radicalità della libertà: perché l’amore accetta anche “di lasciare andare”, ma l’amore vero guarda al modello di Dio. Non basta l’amore vicendevole: chi ama, vorrebbe riuscire ad amare “come ama Dio”, pur essendo consapevole della povertà dei propri mezzi; a fronte della gratitudine per quell’essere umano che gli è stato posto accanto, in cuore gli nasce il desiderio che possa avere il meglio, dalla vita e si rende conto che persino il massimo dell’amore umano è troppo poco. Solo intingendo il proprio alla fonte dell’amore di Dio, si può pensare di donare all’amato quella consapevolezza di sentirsi amati che è tanto difficile da trasmettere che ci sono solitudini che rimangono tali, anche in mezzo a tanti amici, un amore fedele nel tempo, una famiglia presente.
Ci sono vicoli oscuri, nella nostra anima, che solo Dio è in grado di amare, dopo averli conosciuti. Sono quelli che nascondiamo volentieri anche a noi stessi, quando ci riesce. Ecco perché solo aspirando ad un amore che sia immerso nell’amore di Dio e ispirato alla scuola di Cristo, possiamo provare ad amare, davvero, nella verità, nell’autenticità, nella libertà, oltre l’ipocrisia, da cui tutti siamo affetti.

Rif: Letture festive ambrosiane, nella V domenica del Tempo Pasquale, anno C (At 4,32-37; Sal 132; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35)


 Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove – qumran2.net

Fonte immagine: Pixabay

 

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