OlmiCome uno dei fotogrammi più riusciti, quelli che riassumono una vita: «Ormai sono lì come Tonino Guerra, pettinato, con la schiena sulla testata del letto a ricevere gli amici». Ama ritrarsi e lasciarsi ritrarre così il grande regista Ermanno Olmi: in confidenza con Antonio Stella, firma del “Corriere della Sera”, si racconta narrando l’ultima epopea che sta vivendo, per poi un giorno magari scriverla: quella della malattia che aggredisce e rende fiacchi, distrugge e annichilisce le forze. Più che un’intervista è quasi un’eredità, tratteggiata con gli occhi prima ancora con le parole. Un gioco da bambini per chi dell’arte e sull’arte – l’esaltazione dei piccoli particolari che, da soli, sanno firmare la differenza – ha fondato la sua vita, esaltando quell’infinitamente piccolo che è causa di meravigliato stupore: una zolla di terra, un pezzo di pane, la divisa di un soldato, la soglia di un’osteria, lo sbattere del carro sul selciato. Frammenti d’umanità e d’umano: storie sconosciute, volti anonimi, trame di periferia che attraverso la lente del suo occhio ne sono uscite vestite a festa. Per raccontare, per testimoniare, per celebrare: «Chi capisce prima Cristo se non i pescatori, gli ultimi? (…) Bisogna sapersi rimpicciolire, umiliarsi, sentirsi ignoranti per capire alcune cose». Piccoli, per tentare le vette dell’immensità.
Ermanno Olmi è uomo d’arte: l’arte come passaporto e postazione dalla quale scrutare l’esistenza. E, come tale, convinto che nella vita non ci sono delle soluzioni. Ci sono delle forze in cammino: bisogna crearle, e le soluzioni vengono dopo. Forze in cammino e forze che camminano: anche la malattia è una di quelle forze. Misteriosa, lancinante, intensa: anche malefica, bestemmiatrice, squallida. Forse l’anfratto più segreto col quale tutti, prima o poi, hanno dovuto fare i conti: uomini d’arte e d’intelletto, di provata santità come di riconosciuta miscredenza, di fatica e di sopportazione. Per Olmi, stavolta, la malattia diventa la postazione dalla quale scrutare la traiettoria di una vita: «Non c’è un istante di vita che non abbia un significato. Figurati l’ultimo degli istanti! E’ la summa di tutta la vita. Un istante, un battito di palpebre. E c’è dentro tutta la vita». Scansarla sarebbe come accettare di mettere a caso l’ultima scena in un film, l’ultimo verso in una canzone, l’ultimo segno di punteggiatura in una poesia. Guardarla in faccia è decidere e decidersi quale scena mettere a capo di un’epopea: scegliere tra il tragico e il sublime, tra la vita e la morte, tra la rabbia e l’orgoglio. Tra l’uomo e Dio: «Siamo stati troppo distratti da piccole questioni che alla fine non hanno importanza (…) Capire che quella cosa poteva andare diversamente se non fossimo stati distratti».
La distrazione, per l’appunto: nemica dell’arte e della poetica, del sublime e del divino, di ciò che vale e necessita attenzione. Chiede cura, rispetto, venerazione: passi e passaggi firmati in punta di piedi. Di vita vissuta fino all’ultimo. Vivere appieno, per un regista come Ermanno Olmi, è mescolare assieme due tra gli ingredienti migliori: l’attenzione e la gioia. Attende chi ama, ama chi ha scoperto la gioia, scopre la gioia chi la va cercando. Si attende con gioia ma già gioire è una forma di attenzione. Una gioia che, mescolata con l’attenzione, diventa ubriacatura: «Cosa fa Noè dopo aver stabilito la nuova alleanza con Dio? (…) E’ così ubriaco che danza nudo. E’ amore e follia».
Ubriacarsi di gioia: per fare attenzione, per firmare la storia, per attraversare la storia. Lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry non aveva alcun dubbio in merito: fosse stato per lui, a capo della sua città avrebbe messo un prete e un poeta. Un uomo d’arte e di preghiera, quasi un lascito tra i più discreti: il silenzio e la contemplazione. Anche con la schiena sulla testata del letto.

(da L’Altopiano, 17 gennaio 2015)

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