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Come un grande spettacolo della carità. Laddove lo spettacolo non è un banale intrattenimento fatto d’emozioni e buone intenzioni, ma l’intima celebrazione di ciò che di più umano alberga nel cuore dell’uomo: il protagonismo del bene. Quella della Giornata della Colletta Alimentare – esperienza che da diciotto anni si ripete ogni ultimo sabato di novembre – è una storia fatte di tante storie: le più strane e inaspettate, di periferia e di centro, di buon cuore o di semplice passaparola. Storie di strade che, quando si toccano,sovente divengono incroci: prospettive nuove, speranze che s’accendono, bene che si moltiplica. A dismisura, sempre eccedente rispetto alle più pallide previsioni: capace di riaccreditare la speranza laddove troneggia l’arrogante disperazione. Perchè fare la spesa per chi è povero non è solo donare una parte della propria spesa ma è prima di tutto donare una parte di sé: accogliere l’altro nei propri sogni, cioè metterlo nella condizione di poter sognare pure lui. Di diventare protagonista della propria esistenza.

Una storia organizzata all’esterno dei supermercati, laddove la religione dell’acquisto per un giorno fa spazio a quella dell’ospitalità: un’interrogazione, una provocazione, un’annunciazione. Non è il di più che viene gettato ad essere recuperato: è il meglio di ciò che abita l’umano, il “mettere in conto” nella propria spesa l’altro, il foresto, lo sconosciuto. Siccome poi la spesa è una faccenda elementare, feriale è come far entrare l’altro nelle faccende domestiche, dentro il vissuto del proprio quotidiano. E’ la grammatica del bene: che tiene accesa la luce, che spalanca una porta, che pulisce la soglia di casa. Del bene che imbarazza e sconcerta se a compiere quel gesto non è la gente buona ma coloro che appartengono alla tribù dei banditi dalla società: delle persone, cioè, che vivono al confino, dietro le sbarre delle patrie galere. Uomini brutti e cattivi nell’immaginario collettivo, uomini imprevedibili e accecanti nelle logiche di Dio. Come domenica scorsa a Padova, in un carcere di massima sicurezza, laddove uomini dal passato frastagliato hanno celebrato lo spettacolo della carità. 850 kg di generi alimentari non sono solo numeri che raddoppiano rispetto all’anno scorso (con minori detenuti e maggiore crisi): sono l’eco di una bontà che nemmeno le atrocità più nebbiose riescono ad infiacchire, è il bene che alla fine lascia quella sensazione d’umano che tutti cercano, è la voglia di ridare – seppur in minima parte – ciò che qualcuno di loro ha rubato alla società. O, forse, semplicemente tolto: certamente ingarbugliato. E’ sognarsi ancora sognanti dentro una società che hanno tradito e dalla quale si sentono traditi: è semplicemente fare quella manutenzione dell’umano che altrove chiamano rieducazione; e che nei Vangeli si declina con i verbi del cuore.
L’imbarazzo del Bene, quello che ama nascondersi dietro apparenze di morte e di dolore; per accendere negli uomini la curiosità di andarlo a cercare, di dargli la caccia, di stanarlo laddove s’è conficcato. E scoprire poi che, cercandolo, è apparsa una nuova faccia dell’umanità: quella dei perdenti che non s’arrestano al loro passato ma sognano il loro futuro, giocandoselo nel presente. Un pacco di pasta è poco più di nulla: eppure dietro le sbarre ha il sapore delle cose titaniche, la smisurata grandezza di ciò che non è banale, l’irruenza della provocazione. In carcere ci sono tante cose importanti da fare prima che pensare agli altri. Eppure, a conti fatti, la più importante da sciogliere rimane sempre la medesima, sin dagli inizi: decidere come si vuole essere. Col massimo dell’attenzione: tra lo zucchero e il pomodoro in certi giorni s’innesta la Salvezza: quella che giunge a Dio attraversando l’umano. Dovunque si trovi.

(da Il Mattino di Padova e Il sussidiario, 2 dicembre 2014)

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