Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

passion of the christ

L’inizio del capitolo 52 del libro di Isaia è un canto di gioia sulla Gerusalemme liberata dalla schiavitù e prefigurata come la patria dei figli d’Israele che ritornano da Babilonia, liberati; si passa, però, improvvisamente, senza preavviso, ad un personaggio nuovo, anonimo, la cui descrizione lo rende irriconoscibile rispetto all’aspettativa sui “servi di Dio” (nome assegnato, in passato, sia a Mosè che a Davide).

 «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti». (Is 53, 2-5)

Questa descrizione non ci piace. Nessuno andrebbe a cercare un uomo così: è troppo coinvolto, troppo esposto perché la sua amicizia non possa comportare qualche aspetto negativo, per le carriere rampanti. La prima lettura ci propone proprio ciò che vorremmo evitare. Un Uomo dei dolori, che ben conosce il patire. Sono passati due millenni ormai. Ci sono stati cristiani sbranati dai leoni, crocifissi, impalati, decapitati. Eppure, ancora, il nostro primo istinto è quello di volgere lo sguardo da un’altra parte. Ci dà fastidio un Re crocifisso, insultato, umiliato, percosso, deriso. È poco credibile un leader così, di fronte alle strategie di marketing, che invece ci propongono magnifici prodotti per pulire, a fronte di una casa che già brilla per lo splendore, pomate contro il dolore promosse da giovani donzelle che fanno jogging, biscotti per la colazione mattutina mangiati con gusto da una “normalissima” famiglia in un rustico di campagna (chi non ne ha uno?) e così via.
È fastidiosa, la Croce. Come ogni sofferenza. Come gli anziani con la demenza senile, che ripetono sempre le stesse cose. Come i bambini che insistono, finché non ottengono quello che vogliono.
È un pungolo, di fronte alla nostra inadeguatezza, alla nostra scarsa volontà, alla facilità con cui ci abbattiamo, anche se non dobbiamo essere sbranati da leoni né affrontare una crocifissione e la nostra testimonianza costa, tutt’al più una presa in giro o una mancata promozione. Eppure, spesso, bastano tali minacce per tradire. Anche meno di trenta denari è per noi una cifra sufficiente per rinunciare a Cristo. Forse, è questo il vero motivo per cui, ancora oggi, ci è difficile guardare la Croce, senza volere allontanare immediatamente il nostro sguardo.
«Non capite che è meglio che muoia uno solo, invece che la nazione intera?» dice Caifa, il sommo sacerdote (Gv 11,49).
Quello che noi vorremmo allontanare, perché infastidisce, è proprio ciò che può salvarci. Nella Croce, ed insieme con essa, trova significato tutto il dolore innocente del mondo: quello a cui non riusciamo a dare spiegazione, per cui domandiamo “Dio, dove sei?” è racchiuso e raccolto nel mistero della Croce, che Cristo ha liberamente scelto di accogliere per la nostra salvezza. Dove va a finire tutto il dolore innocente del mondo? Lì. Si rannicchia tra le braccia spalancate di Cristo sulla Croce. Ogni rifiuto, ogni scarto, ogni “no” ricevuto all’amore, tra quelle braccia diventa un sì.
Solo passando da quelle braccia spalancate, è possibile ritrovare la speranza.

«Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (Is 53, 11-12)

Proviamo a fissare lo sguardo su quel Messia umiliato, sfiancato, prostrato, lacerato, vilipeso (il Cristo del Venerdì Santo) e lasciamo risuonare questo brano.
Ci sembra fuori luogo, inconciliabile, incomprensibile. Impossibile. Un “lieto fine” confezionato solo per compiacimento.
Non è così.
Gli eventi pasquali non possono essere solo celebrati. Vanno vissuti, attraversati, sperimentati. In quelle ore c’è uno spiraglio sulla salvezza per l’umanità: in quei giorni, s’apre una finestra sul Mistero più grande nella vita dell’uomo, che è l’amore per ciascuno di noi e la prospettiva di una vita che oltrepassi il buio della morte. In quelle ore, non c’è in gioco qualcosa: ci giochiamo tutto. È uno scontro diretto, tra morte e vita, tenebre e luce. Ci è preclusa la sua durata; sappiamo una cosa sola, però, che è anche la più importante: non sarà il Divisore ad avere la meglio, perché Cristo è sceso in campo, non solo con noi, ma davanti a noi, ad aprirci una nuova strada.

Il Vangelo ci offre poi uno squarcio di una scena di intimità familiare, che però avvertiamo essere, subito lontano dall’idillio che potremmo aspettarci: avviene un gesto strano che Giovanni, al contrario dei sinottici, pone in essere tramite Maria di Betania, invece che tramite una donna sconosciuta. Se vogliamo, proprio questo, in un certo senso, aggiunge qualcosa in più. Si tratta, in questo modo, di un gesto di tenerezza, non richiesto, nei confronti di Gesù. Non richiesto ma, non per questo, sgradito: tant’è vero che non è rifiutato dal rabbi di Galilea. Tanto che, non solo la lascia fare, ma, addirittura, la difende pubblicamente da uno dei suoi discepoli, avallandone sia l’intento che la modalità.
Siamo a Gerusalemme, la Pasqua si avvicina e Gesù è pienamente consapevole che questa sarà diversa da tutte le altre. Per Lui, ma anche per l’umanità intera. I pensieri e le sensazioni si affollano nella sua mente. Saranno pronti, i suoi, che ora, probabilmente, sono intenti a ridere e scherzare, mentre sono a mensa, ad affrontare l’evento che avrebbe sconvolto le loro vite? Capiranno? Sapranno farsi capire? C’è una svolta in attesa e non è facile farsi trovare pronti.
È probabile che tutti questi pensieri si trasformassero in preghiera muta verso il Padre; forse, già allora, si domandava se ci fosse un altro modo per realizzare il disegno salvifico. Erano passati più di trent’anni. Aveva dovuto imparare ad essere uomo, ma – tutto sommato, i Vangeli stessi lo testimoniano – gli eravamo rimasti simpatici, forse, proprio per le nostre fragilità, insicurezze e spavalderie. Un po’ gli spiaceva essere costretto a lasciare tutto questo. Senza contare che la modalità non era sicuramente nulla che potesse attirare verso di sé. Solo l’Amore riesce a comprendere certe cose: la logica e l’intelletto, in certi attimi, rischiano di diventare ingombranti in una speculazione che deve farsi spazio in misteri che la superano.
E l’amore – quello vero – c’insegna Maria, richiede spreco. Di energie, di forze, di creatività, di fantasia. Anche di denaro. Perché l’amore sa comprendere il momento. Non dimentichiamo, del resto, che Maria era quella che “ascoltava il Maestro”, mentre Marta era affaccendata (Lc 10,38-42): in quell’ascolto, deve aver sintonizzato il proprio battito col battito del cuore del Maestro, così che non le è potuto sfuggire il turbamento del Nazareno, alla vigilia di quella settimana che avrebbe sancito la sua fine terrena.
Le sue mani si dirigono verso il vasetto di nardo – magari, non solo sotto gli occhi inquisitori dei discepoli, ma anche della stessa sorella, che, probabilmente, come i primi, ne avrà visto un’inutile spreco – e il profumo fa il resto: di fronte a quell’aroma che, sprigionandosi riempie l’aria circostante, nessuna discrezione è sufficiente a far passare il gesto di Maria inosservato. È destinato a cavalcare i secoli ed essere ricordato per sempre.
Promemoria che anche Dio ha bisogno di non essere lasciato solo – come, invece, troppo spesso, lo lasciamo, nel tabernacolo di una chiesa vuota – : le mille vicende in cui ci affaccendiamo (magari, persino all’interno delle nostre parrocchie) rischiano di nasconderci il vero motivo per cui lo facciamo.

Ecco perché risulta quanto mai opportuno l’ammonimento di san Paolo: «corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento » (Eb 12,2). La fede non è un dato di fatto: richiede il nostro impegno e la nostra volontà di progredire, di essere disponibili alla fedeltà, al di là delle nostre immancabili infedeltà: solo tenendo fisso lo sguardo su Gesù, possiamo comprendere dove stiamo andando e che, su di noi, non pende una spada di Damocle, bensì un destino superiore alle nostre migliori aspettative, un’eternità da spartire con il nostro Creatore!

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella Domenica della Palme, Anno C (Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11)


Fonte immagine: Allithea

Fonte: Commento del Vangelo a cura di Teresa Ciccolini, Parole Nuove

 

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