Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Eucaristia

Fratelli, io non mi vergogno del Vangelo, perché è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco». In esso, infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà. Infatti, l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti, le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi, dunque, non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata.
(Rm 1,16-21)

Il Vangelo, che san Paolo ci presenta, nella lettera ai Romani, è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco». Potenza, che richiama la folgore e il tuono dello Spirito Santo, capace di far ricordare agli apostoli non solo le parole del Maestro, ma il loro valore e più profondo significato. Potenza, come quella della Parola creatrice, capace di attuare quanto significa, come nel racconto della Creazione, che leggiamo nel libro della Genesi.

Eppure, non qualcosa di esclusivo: con Cristo, Verbo incarnato del Padre, la salvezza è diventata disponibile a tutte le genti: non più solo al popolo ebraico, primo destinatario della Rivelazione, ma anche “greco”, figura dei pagani, in cui può rivedersi ciascuno di noi. A volte, è bello (anche quando un po’ doloroso oppure faticoso) fare memoria della propria storia e del proprio passato, non solo personale. Se vi guardiamo indietro, ai tempi di San Paolo, in Italia, non c’era nulla di quanto osserviamo ora. Non il Vaticano, non una parrocchia, non un ospedale, non un’università. Tutto ciò verrà soltanto dopo; molto dopo.
Di quel tempo, è rimasto qualche rudere a Roma, ai fori imperiali. Romani, Celti, Germani, Greci. A quell’epoca, erano tutti accomunati dal paganesimo, da religioni antropomorfe, oppure di tipo spiritistico. Tutti guardavano alla natura, cercando in essa un segno che potesse parlare loro di Dio.

Se la Parola di Cristo è arrivata fino a noi, dobbiamo ringraziare (o rimproverare, dipende da come valutiamo le conseguenze!) la predicazione di san Paolo. Anzi, prima ancora, la scelta, perorata dall’ex integerrimo fariseo Saulo di Tarso, di estendere la predicazione della buona notizia anche ai pagani e non solo “alle pecore perdute della casa d’Israele” (preferenza che Cristo stesso, per primo, pare sottolineare, durante la propria itineranza).
Il Vangelo, come un tesoro prezioso, da custodire con amore; ma, anche, cui attingere, come ad un pozzo. Perché non si tratta di un museo, in cui camminare in silenzio, con circospezione, facendo un accorto slalom fra divieti di toccare e raccomandazioni su come comportarsi in modo opportuno.
Un tesoro, perché è prezioso: il suo valore è inestimabile. È la buona notizia di una tenda che è diventata più grande, ha orizzonti più ampi, guarda più lontano.

Ma, come ha modo di dire altrove, si tratta di un tesoro, che, però, si trova “in un vaso di coccio” (cfr. 2Cor 4, 7): un vaso non prezioso, anzitutto, di quelli, all’epoca, utilizzati per i fini meno nobili, a partire dalla conservazione del cibo, ma, non per tale motivo, inutili; questo indica il materiale riportato.  Tuttavia, non mi pare così fuori luogo ricordare un’altra proprietà del coccio: la durezza. “Popolo di dura cervice” (cfr. Esodo 32, 9): così sì rivolge il Signore al popolo d’Israele. Sarà cambiato il popolo di Dio, la sua fisionomia e geografia, i suoi lineamenti ed i suoi riti, ma non mi pare di vedere tutta questa differenza!

Anche noi, infatti, spesso, fatichiamo a leggere, nel Vangelo, una storia di Bellezza. Talvolta, ci lasciamo ingannare dal Nemico, che fa di tutto per convincerci che quella Parola sia un ostacolo alla nostra felicità, che non contenga altro che limitazioni alla nostra libertà.
Anche di noi, quindi, si può dire che “non abbiamo alcun motivo di scusa”, perché “pur avendo conosciuto Dio, non lo abbiamo glorificato né ringraziato come Dio, ma ci siamo perduti nei nostri vani ragionamenti e la nostra mente ottusa si è ottenebrata”: che scusa potremmo avere, infatti, dal momento che abbiamo, oltre a una millenaria predicazione, anche l’accesso (potenzialmente) illimitato a migliaia di testi dei Padri della Chiesa, di secoli di teologia, a portata di click, grazie alle potenti tecnologie attualmente disponibili (quasi) a costo zero?

Al contrario dei pagani coevi a san Paolo, che, prima della sua predicazione, potevano affidarsi, per lo più, alla propria personale ricerca, noi abbiamo il vantaggio di poter guardare – come ad alleati – a chi, come noi, voglia (o abbia voluto) cercare Dio. Pensatori e filosofi, letterati o teologi: il Verbo, fatto carne, è diventato accessibile, mostrabile, presentabile, visibile. Persino: tangibile.

Non è questo, in fondo, il grande mistero che abbiamo celebrato e celebriamo nel Corpus Domini? Il Figlio di Dio, fatto uomo, celandosi nelle specie del Pane e del Vino, si lascia prendere, spezzare, dividere, per nutrire il proprio Corpo, che è la Chiesa, e riattualizzare, nel tempo, il medesimo sacrificio del Calvario.
Un tesoro che, da millenni, si ripete, per mano di una piccola creatura, che non ha alcun merito da vantare, se non quello di aver sperimentato la gratitudine della libera – ed insindacabile – scelta di Dio di scommettere sulla nostra povera umanità, per un sodalizio senza pari.

Nella metafora di San Paolo, che il tesoro dimori in vasi di coccio è – in un certo senso – necessario, affinché sia evidente che non è nostra la forza, perché la potenza viene da Dio, non da noi stessi.
Non è autocommiserazione: è il sano realismo di chi, come san Paolo, con grato stupore, contemplando la differenza tra sé e Dio, nella consapevolezza della nostra finitezza d’uomini, sperimenta che il fiducioso abbandono in Dio è proprio quello che ci consente di fare opere, che sono anche grandiose (come predetto dallo stesso Maestro – cfr. Gv 14, 12).


Rif: Seconda lettura, Seconda domenica di Pentecoste, anno B, nel rito ambrosiano

Fonte immagine: Google

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