amore fano velasco

“Prima” e “dopo” sono concetti che impariamo fin da piccoli, sui banchi di scuola. Man mano che diventiamo grandi, più il tempo passa, più essi ci sembrano così assurdamente semplici che dimentichiamo tutta la fatica spesa per apprenderli, e non è stata poca. Dimenticanza comprensibile, dato che più si cresce più ci immergiamo in giornate scandite da tempistiche e orari da rispettare, azioni da compiere in determinate sequenze perché abbiano successo. Tutto il nostro quotidiano, da quando ci svegliamo al mattino fino al momento di coricarci alla sera, è un grande contenitore di “prima” e “dopo”, anche se non mancano momenti in cui vorremmo sovvertire l’ordine, mossi da impazienza.
Forse è anche per questo, che, quando ci troviamo al cospetto della Misericordia, non riusciamo a non ragionare con lei in altri termini che non siano questi, perché fanno parte dello schema mentale con cui ci troviamo a convivere.
Viene prima la conversione di un cuore, o l’amore di Dio che perdona?
L’amore verso il prossimo, da “amare-come-se-stessi” (Levitico 19), viene dopo di quello verso Dio, da “amare con cuore-mente-anima” (Deuteronomio 6,4-5)?
E l’amore verso il creato, natura ed animali, viene ovviamente dopo quello rivolto a Dio e al prossimo, vero?
Invece no, la Misericordia è materia d’eternità. Suo è l’abbraccio perenne di un “durante” che lega insieme Dio e l’essere umano, l’uomo con i suoi simili ed il resto del creato. Nessun prima o dopo, ma un “sempre” che vorrebbe riempire ogni angolo delle nostre azioni, illuminarlo a giorno.
In questi giorni, di sbarchi e di naufragi, di vite salvate e di esistenze spezzate, c’è chi non riesce a fare a meno di trattare il comandamento dell’amore di Dio e quello verso il prossimo come due squadre pronte a scendere in campo per darsi battaglia. Si aizzano allora le diverse tifoserie da stadio, i cori dell’una contro quelli dell’altra. Si prendono bilance, misurini, metri, per calcolare quale dei due comandamenti sia più grande, quale venga prima e quale dopo, in modo da giustificare la propria condotta ed il proprio pensiero agli occhi degli altri.
“Maestro, qual è il comandamento più grande?” (Matteo, 22,36), domandarono i dottori della Legge, ingabbiati sia dal loro desiderio di trarre Gesù in trappola, sia dallo schema mentale di un amore che va dosato con il contagocce per non essere sprecato.
Il Rabbi di Nazareth, invece – Misericordia fatta volto e persona – attinge all’infinito che è la misura del suo essere. Rende inseparabili e complementari la tensione verso Dio e verso il prossimo, l’amore verso il Padre e la carità per i propri fratelli. Fa sì che il volto di Dio sia in quello di ogni essere umano, che la sua immagine sia in ogni fratello sparso ai quattro angoli della Terra.
L’amore di Dio e quello verso il prossimo non possono esistere l’uno senza l’altro.
L’uno non è più grande dell’altro.
Entrambi sono radici regalate all’essere umano per renderlo capace di innalzarsi verso il cielo e laddove una sia manchevole, anche l’altra ne risente.

“Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello.” (1Giovanni 4,19-21)

E l’amore, si sa, non è solo una bella parola, da mostrare come fosse un soprammobile bello splendente. L’amore chiede di sporcarsi le mani, rimboccarsi le maniche e cingersi le vesti. Chiede pensieri ed azioni, un “abbigliarsi il cuore” – come disse la volpe al Piccolo Principe – che si riflette su ciò che si dice e si fa.
Ammantarsi di preghiere verso Dio e invece scostare il lembo del mantello, perché colui che sta al ciglio della strada non lo possa nemmeno sfiorare per chiedere aiuto, è invece il gesto di quel sacerdote e quel levita che si rifiutarono di prestare soccorso temendo di contaminarsi (Luca 10,25-37), quando invece la vera contaminazione che allontana da Dio non è la mano tesa verso il fratello di un altro colore o di un altro credo, bensì è quella di un cuore che si lascia intaccare dall’idea di un amore da dosare con un bilancino di precisione.


Fonte: Enciclica Deus caritas est, Benedetto XVI

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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