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La lettura veterotestamentaria propone anche stavolta una narrazione delle vicissitudini di Israele, in un momento di difficoltà.
Negli anni 705-701 a.C., gli Assiri minacciano Israele: il capitolo 30, del libro di Isaia, inizia, infatti, con la descrizione della carovana che scende in Egitto, carica di doni, sperando in un’alleanza fruttuosa con l’Egitto.
Nel cammino, che si svolge attraverso il Negheb (deserto a sud della Giudea), incontrano bestie feroci e di animali favolosi (draghi alati). In seguito, sono compiuti diversi sacrifici, per raccogliere ricchezze e offrirle all’Egitto, ma è ricevuto solo un aiuto illusorio.
È in questo contesto che si inserisce il richiamo del profeta al popolo, per conto di Dio:

«Non fateci profezie sincere,
diteci cose piacevoli, profetateci illusioni!
Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero,
toglieteci dalla vista il Santo d’Israele».
(Is 30,10)

Se pensiamo a San Giovani Battista, di cui la liturgia ambrosiana ha ricordato giovedì il martirio, ci accorgiamo che, pur cambiando i tempi, il cuore dell’uomo non cambia? Perché Giovanni fu messo in carcere? Per metterlo a tacere, perché la sua predicazione scomodava la coscienza di Erode.
Perché la Parola di Dio è scomoda.
Anche per noi è così: quante volte, leggendo il Vangelo, vorremmo piegarlo a nostro piacimento, raddolcirne alcuni passaggi (quelli più impegnativi, per noi, naturalmente)? Mi viene in mente un piccolo aneddoto di quando ero bambina e, andando in montagna, saltavo su tutte le strade in salita, perché “volevo renderlo piano”. Fa sorridere, ripensarci ora, ma porta anche a pensare ch eil cuore dell’uomo sia rimasto lo stesso, a dispetto di ogni progresso tecnologico e dello scorrere implacabile degli anni. Se una cosa ci dà fastidio, la togliamo; se qualcosa ci impedisce di stare comodi, la spostiamo. Non ci piace “farci scomodare”. Soprattutto da Dio.
A Lui, invece, sembra piacere un sacco: l’intera storia sacra è un susseguirsi di “cambi di piano” a cui Dio costringe l’uomo, quando quest’ultimo si era ormai accomodato su una scelta più semplice, immediata e comprensibile.
La verità è – per definizione – più scomoda. Innanzitutto perché è adesione alla realtà, che non sempre si accorda al nostro desiderio. Secondariamente, perché richiede quella coerenza che non accetta il compromesso per sopravvivere.
«La verità trova forza in se stessa e non nel numero dei consensi che riceve» (Benedetto XVI, discorso ai rappresentanti della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali, 18 marzo 2006): la verità, se davvero è tale, non può essere piegata né dalla forza della violenza, né da quella – più subdola – della pressione psicologica a cui – spesso – possiamo essere sottoposti. Difficile accettarla, dunque, in un mondo – come il nostro – soggiogato alla logica della maggioranza per cui, se non sei dalla parte “giusta” (definita tale, relativisticamente, solo perché – relativisticamente – tale, in quel momento e in quel luogo precisi) non ti considera nessuno.

«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza». (Is 30, 15)

Quando pensiamo a alla forza, ci viene in mente, probabilmente, la forza muscolare, oppure quella meccanica: in ogni caso, una in grado di sconfiggere la forza di gravità. Dio non pensa a questo, però: preferisce privilegiare una forza nascosta e discreta. L’abbandono confidente è la definizione della fede a cui aspirare: la consapevolezza che anche ciò che non capiamo del tutto – a volte, persino: per niente – ha, comunque, un senso. È il bambino che prende la mano della mamma: non sa dove questa la porta e, se anche lo sapesse, non farebbe differenza, perché ancora non ha esperienza del mondo e il nome del posto gli sarebbe ignoto; si fida, perché sa che quella mano appartiene a una persona che gli vuole bene e quella è l’unica garanzia che gli serva per camminare.
Forse questa fede appartiene solo ai santi, ma è alla santità che siamo chiamati ed è questa la vera conversione: credere che ogni giorno possiamo cambiare, ma che Cristo ci ama da prima che diventiamo migliori, come sottolinea l’Apostolo:

Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5, 8)

Questa indicazione temporale non è importantissima, è fondamentale. È il fondamento stesso della fede cristiana. Dio si è donato a noi, in vista di un possibile – ma non: scontato – ricambio. Si è donato prima, non “in vista di”. Non ha compiuto un ricatto morale, bensì un dono di una gratuità inaudito. Tutto, per niente. La più antieconomica delle offerte.
Questo è il massimo della libertà possibile: difficile immaginarne una maggiore.
A fronte di un’offerta totale, di un amore che precede il nostro ravvedimento, l’accoglienza del disegno di Dio su di noi, la nostra libertà non solo è immutata, ma – se possibile – raddoppiata.
Dio mi cerca? Com’è possibile? Questa è la reazione di Zaccaria, padre di san Giovanni Battista, detto il Precursore. Sì, e anche da sempre, dovrebbe essere la risposta, anche quando il cuore fatica ad adeguarsi. Ci sembra impossibile che Dio possa cercare e scegliere proprio noi. Soprattutto, perché ciascuno di noi, nel profondo di se stesso, ha ben presente gli aspetti peggiori di sé, quelli che in pubblico si cura bene di celare con dovizia e sa che a Dio, però, non possono sfuggire. Come fa Dio, Onnisciente, a volermi “lo stesso”? Forse, proprio i nostri difetti sono opportunità di crescita, per diventare migliore, rimanendo, sin da subito, nella forza dell’amore di un Dio che ci ama prima ancora di diventarlo, che, però fa il tifo per noi affinché possiamo raggiungere i traguardi più veri a cui il nostro cuore anela.

Il Vangelo riporta un’antica profezia, senz’approfondire la quale è difficile comprendere il senso del brano.
Nel 732 a.C., una parte della terra promessa era stata travolta da un esercito straniero assiro e, dopo essere stata devastata, vi abitarono popolazioni pagane mescolate a nativi: da quel momento, essa fu considerata terra senza speranza e quindi abbandonata, disprezzata, misconosciuta e ritenuta lontana da una piena aggregazione con il popolo di Dio: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».
È proprio da qui che inizia la predicazione di Gesù: nella Galilea delle Genti, in una terra che si credeva “abbandonata da noi”. In un crogiolo di popoli, nel mercato d’Israele, lontano dalla spiritualità del tempio di Gerusalemme, vicino alla ferialità del popolo d’Israele.
Questa scelta dovrebbe essere significativa anche per noi, oggi. Dio è sempre presente in mezzo a noi. Anche, ma non solo in chiesa. Dovremmo ricordarci di lasciarGli spazio nelle nostre giornate, tra i nostri doveri, a scuola, in ufficio, nel tempo libero. Non possiamo essere cristiani “a tempo parziale”: Dio vuole abitare in ogni aspetto della nostra vita, per cui ci chiede di renderGli testimonianza e di esserGli fedeli in ogni ambito. Del resto, è Lui il primo che non parcellizza noi, ma ci ama d’un amore così integrale, che lo fa a partire dai nostri difetti (dal nostro “buio”) e non dai pregi che mostriamo con orgoglio, per poi abbracciarci tutti interi!

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella I Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista (Is 30, 8-15b; Rm 5, 1-11; Mt 4, 12-17)


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

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