Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Il loro paese è il “parcheggio” con la più alta densità di popolazione di Padova: in un pugno di metri quadrati sono parcheggiati anche in tre. L’ultima volta che han fatto notizia è stato perchè pure loro fanno la Raccolta Differenziata. E’ il “parcheggio della sicurezza”, il bocconcino ghiotto quando s’avvicinano le elezioni. Perchè basta assicurare che il pedofilo è stato arrestato, che Salvo Riina tornerà a casa sua, che i ladri della banda fra poco finiranno in galera per far vivere sonni pacifici alla città di Padova. Qualcuno inizia a farsi giustizia da solo: segno che il carcere non tranquillizza come si vorrebbe far credere. Anche perchè dalle sbarre del Carcere Due Palazzi la cronaca quotidiana cittadina offrirebbe spunti interessanti di lettura.

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L’arresto di un pedofilo
Viaggiava per un patronato del centro e adescava i bambini con le caramelle: il solito clichè che ci raccontava pure la nonna. Ma non basta aver ammanettato il pedofilo per risolvere il problema della tutela dell’infanzia a Padova: il male va compreso, analizzato, affrontato per poter diventare occasione di riflessione per un’intera comunità. E’ darsi da fare con tutte le forze per cercare di salvare Abele senza per forza dover ammazzare Caino, perchè se chi sbaglia si sentirà accolto, magari abbandonerà le armi e sarà una soddisfazione per un’intera comunità. Il più delle volte è la paura che acceca il cuore dell’uomo, è quel senso di insicurezza che non ci fa più sentire sicuri nemmeno a casa nostra, è quel desdierio mai velato di sapere che chi ha compiuto un delitto deve marcire nel ventre di una patria galera. Senza chiederci chi si prenderà cura di lui perchè dietro un delitto c’è sempre una storia ferita: nei sentimenti, negli affetti, nei sogni. Dietro certi reati qualche volta è nascosto l’essere stato vittima prima che carnefice. La caccia ad un pedofilo – sia esso reale o semplicemente portatore di un sospetto malevolo – non è una vittoria di civiltà: chi lavora dentro le galere apprende ben presto che esistono gli uomini malvagi. Ma ancor prima tocca con mano che gli uomini infelici sono molti di più; e sono loro a creare quel sovraffollamento dietro il quale nascondiamo tutta la nostra incapacità di guardare in faccia la realtà. Chi stupra, chi fa del male ad un bambino, chi violenta una donna per tanti è difficile da guardare negli occhi: eppure gettare lo sguardo dentro quell’abisso è l’ultima chance che abbiamo in mano per capire certi passaggi della vita dell’uomo.
Un caso di pedofilia è un “gancio in mezzo al mare” della disperazione: per insegnare a denunciare i soprusi subiti, per togliere quel senso di vergogna che ancor oggi attanaglia troppe persone che sono state vittime, per fare luce su una piaga che si potrà conoscere nella misura in cui ci sarà il desiderio e la pazienza di confrontarci. Per sensibilizzare i bambini attraverso una cultura della prevenzione. Ma occorre essere in tanti a farlo perchè il lavorare sulla strada dove vita e morte ogni giorno s’affrontano chiede la forza di un gruppo per non inghiottire la buona volontà di chi si trova da solo ad agire.

Quando “Caino” esce dalle sbarre
La vita in galera è questione di una data: se c’è, la speranza rimane accesa. Quando non c’è, la speranza vacilla tremendamente: non è per niente facile assuefarsi ad una morte che s’avvicina giorno dopo giorno senza più possibilità d’uscita. Ma anche per chi un giorno uscirà, la paura è tanta di non essere accolto. Salvo Riina a Padova non lo vogliono: basta il gesto semplice d’accoglienza di una donna che da anni lotta sulla frontiera per fare della sicurezza la più becera campagna politica. Eppure una chance andrebbe data a tutti, se non altro per lasciare aperta la porta di una possibile redenzione. La mafia a Padova non la porta lui: le infiltrazioni esistono da tempo perchè la mafia prima di essere un’associazione è uno stile già in auge, anche in ambienti insospettabili: Salvo Riina arriverebbe in ritardo. Lui conosce Padova e il suo carcere: ha scontato la pena, ha conosciuto il volto bello del volontariato cittadino, ha accettato di re-iniziare una nuova vita, stavolta alla luce del sole. E la sua storia diventa l’emblema di mille altre storie perchè un giorno il detenuto uscirà dalle sbarre: non sono rifiuti o bestie da tenere dentro le gabbie a marcire. A Gubbio frate Francesco fece un doppio lavoro: il più semplice fu quello d’ammansire il lupo. Il più complicato, probabilmente, quello di convincere i cittadini di Gubbio che il lupo non avrebbe più fatto paura. Se nel periodo della detenzione anche una città non accetta di rimettersi in gioco, di rielaborare un crimine, di tentare l’attraversata di questi deserti di disperazione, la sicurezza rimarrà solo un prevedibile slogan elettorale. Durante una trasmissione televisiva, Franco – un ergastolano di vecchia data – ebbe il coraggio di dire: “capisco chi dice di gettare le chiavi delle nostre celle in mare. Li capisco, ma non è così che si recupera un uomo (…) Rimanendo a stretto contatto con il bene, mi sono reso conto del male che ho fatto e ho preso le distanze da esso”. Franco: ma anche Filippo, Andrea, Marino e Silvano, Tommaso e Battista. Sono una schiera coloro che rimanendo a contatto con il bene si convincono della loro vecchia infelicità e vogliono ripartire. Sottovoce, senza clamore, rimettendo in ordine il loro alfabeto: chiedono una chance per dimostrare d’essere diventati forse uomini diversi, non certamente i migliori uomini del mondo ma, per quanto concesso da un regime poco rieducativo, i migliori uomini possibili. Uomini che non vogliono più scambiare l’abat-jour con la luce del sole.

Le celle della disperazione
In carcere non ci sono solo omicidi di vecchia data o volti di mostri “creati” ad hoc per debellare la paura. C’è anche gente della porta accanto perchè in carcere si entra anche per disperazione: vittime del gioco d’azzardo, “ladri di polli” costretti all’illegalità per non morire di fame, spacciatori di piccolo cabotaggio, stimati professionisti caduti nelle maglie dell’usura e magari divenuti usurai. In carcere è ben visibile il labile confine tra legalità e illegalità, tra giustizia e malvagità, tra angoscia e disperazione. Fare del carcere un tabù oggi non è più possibile, forse non è nemmeno giusto: perchè l’errore è accovacciato di fronte ad ogni porta. Perchè un bambino/a che sperimenta la carcerazione di papà non deve più vergognarsi di andare a scuola o di affrontare gli amici, perchè la sposa e la fidanzata di un detenuto non merita d’essere considerata la strega del quartiere. Perchè la mamma di un brigante è pur sempre una donna dai sentimenti accentuati e materni che mai rinnegherà l’amore per il frutto del suo grembo. Altra cosa è il delitto.

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Sono Chiesa pure loro. E ti chiedono di Dio
Il Papa per loro ha fatto un gesto d’insopportabile emozione: è entrato a Rebibbia (e simbolicamente in tutte le carceri d’Italia) e ha parlato loro col cuore. Senza discorsi scritti, a braccio, scrutandoli nel volto e carpendo la nostalgia nelle loro frasi sgrammaticate. Ma il Papa è solo, tremendamente solo in certi gesti. Nella Diocesi di Padova il carcere è una parrocchia di modeste dimensioni, sono papà di bambini che passano per gli oratori, mariti di qualche donna impegnata nelle pulizie della chiesa, anime che chiedono dei loro parroci. A sommare le loro storie esce la sintesi più bella del mistero dell’iniquità e della salvezza, dei fili del bene che s’intrecciano inevitabilmente coi fili del male: come chiesa non possiamo permetterci di considerarli alla stregua di come li considera il mondo: “ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36) E pure il contrario. Il mattino di Pasqua uno di loro ha scritto un biglietto per i suoi due compagni di cella: “la fede non è una bandiera da portarsi in gloria ma una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d’inverno” (N.Ginzburg). Conoscerli, stringere loro le mani, scrivere loro una lettera: magari non fanno parte di nessuna associazione cattolica, eppure nei loro sguardi c’è sete di Dio, c’è voglia di riscatto, c’è bisogno che qualcuno li aiuti nel riconciliarsi con i parenti delle loro vittime. Nei loro sguardi c’è nostalgia di Dio.
Qui dentro la chiesa avrebbe in mano la sfida più bella: spostare il reato e guardare la persona per risalire assieme con lei alle radici di una storia che il più delle volte ha compromesso e definito il loro presente. Le visite di routine non bastano per far sentire loro Dio “di casa”. Si tratta di incastrare le loro storie nel piano pastorale della Diocesi, di dare loro voce nelle migliaia di congreghe vicariali, di aprire loro la porta nel Consiglio Presbiterale, di agganciare i loro sguardi nei mille volantini diocesani: non è fare di loro dei privilegiati ma mostrare una Chiesa che sta con i fatti dalla parte dei poveri e degli erranti. E che dalla profezia del Papa sa lasciarsi interpellare.

Nel cuore di Padova da oltre 800 anni campeggia l’Università, bottega di cultura, di elaborazione del pensiero e di ricerca. Il Battistero è sfoggio d’arte e di tradizione. Forse rimane un piccolo passo: cercare di comprendere il male senza mai giustificarlo. Perchè evitare di analizzarlo è sembrare come quei bambini che chiudono gli occhi per non farsi vedere.

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