Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

TUTTOILMONDOFUORI LOCORIZZONTALE

“Tutto il mondo fuori” pensa di conoscere tutto del carcere, dei suoi misteri più reconditi: rinchiuderli in cella, afferrare la chiave, gettarla in mare profondo è la forma di gestione più oculata che i più caldeggiano per governare queste città di ferro-cemento. Intelligentissima come proposta, da sottoscrivere all’istante se, solo, il male fosse un’entità a sé stante: incatenato, morirebbe per asfissia. Il male, invece, non ha una vita propria: è un parassita, un invertebrato, uno scroccone. E, come tale, ha bisogno di un corpo per sopravvivere, di una persona disposta ad affittargli l’animo per permettergli di ottenere un permesso di soggiorno nella trama della vita quotidiana. Da quell’istante, il male diventa una fastidiosa evidenza: astuto com’è, fa uso di un prestanome, di una storia umana, per creare danni, allarme, terrorismo. Non esiste, dunque, il male in natura: esistono delle storie che hanno accettato, per chissà quali motivi, d’andare a zonzo col male. Di illudersi dell’energia del male.
“Tutto il mondo fuori” – docufilm in onda mercoledì prossimo alle 21.25 su Nove – è un tentativo artistico di debellare il male con il solo strumento che vanti un curriculum (certificato) di saperlo annientare: il bene, ch’è bontà e meraviglia. Per raccontare di questa lotta, occorre averla almeno una volta combattuta, col rischio d’aver pure preso le botte dal male stesso: basterebbe un ergastolo ben poggiato sulle spalle per capire che il male non paga, ch’è una prostituta che ti sfinisce, facendoti pagare pure il servizio, per poi lasciarti solo a bordo strada. È la storia di tre uomini ristretti nella Casa di Reclusione di Padova: a loro, senza romanticherie di corredo, il regista Ignazio Oliva ha lanciato la sfida di condurre il telespettatore in un corpo-a-corpo con l’inferno, l’inverno dell’anima, per poi uscirne (forse) diversi, con uno sguardo più acuminato. Raccontare la galera in queste giornate – tra scarcerazioni di boss, decreti e controdecreti, minacce di sfiducia, proposta di abolire le carceri – è rischiare di prendersi pesci in faccia: è proprio in stagioni così, però, che questa sfida va narrata, che il male va stanato: «Un viaggio nell’umanità di coloro che per diversi motivi hanno commesso degli errori e scelto percorsi criminali – ha rilasciato il regista Ignazio Oliva -, che in questo carcere sono stati messi nelle condizioni di capire e riconoscere il dolore immenso causato alle vittime e alle loro famiglie, oltre che a loro stessi e ai propri cari». Le condizioni, appunto, che sono opportunità che accadono perchè qualcuno ha il coraggio di farle accadere: «Nessuno si salva da solo» ricorda ad oltranza Papa Francesco, ispiratore-ombra di questo ennesimo viaggio nell’inferno delle carceri, dopo la Via Crucis che ha commosso il mondo nei giorni prossimi alla Pasqua.
Tutto il mondo fuori stia tranquillo: qui non si fanno sconti, come nelle migliori cantine. Qui il vero sconto di pena è riuscire a guardarsi in faccia, dare un cenno di presenza a se stessi, tentare di rimettersi in piedi. Riletta così, la vita ai tempi della galera è una sorta di sperimentazione di risurrezione in corso: credere che questi uomini si rialzeranno è apparire più credibili quando, da cristiani, si crede nella «risurrezione dei morti». In attesa, allenarsi è credere a quella dei viventi caduti. Anche stavolta, come il Venerdì Santo, sarà il racconto comunitario di una ripartenza: in settimane dove “Come faremo a ripartire?” è la domanda più cliccata, un assaggio di che cosa significhi, dopo il contagio del male, ripartire più vaccinati. Meno istupiditi dalle sue grasse falsità.

(da Il Mattino di Padova, e Il Sussidiario, 10 maggio 2020)

“Tutto il mondo fuori” è un documentario di 75′ diretto da Ignazio Oliva (già attore, tra i moltissimi film, di The Young Pope e Braccialetti rossi) e prodotto da Officina per la Comunicazione che andrà in onda sul Nove («Nove racconta») il 13 maggio alle 21.25. Un lavoro girato nella Casa di Reclusione di Padova poco prima del lock-down, con la collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria, la parrocchia del carcere, la squadra di calcio Pallalpiede, la cooperativa Work-Crossing e la scuola superiore dell’istituto patavino.

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Recensione della Commissione nazionale valutazione film della CEI

Dura 75 minuti il documentario “Tutto il mondo fuori”, esattamente come “Cesare deve morire”, meraviglioso film del 2012 di Paolo e Vittorio Taviani, Orso d’oro al Festival di Berlino: il racconto della messa in scena dell’omonimo spettacolo di William Shakespeare all’interno di Rebibbia. Il film di Ignazio Oliva va esattamente in questa direzione; e lungo questa direttrice in un certo senso fa anche un passo in avanti, oltre il guadagno dei Taviani.
In “Cesare deve morire”, infatti, assistiamo al miracolo dell’arte e della cultura, che toccano il cuore dell’uomo e lo predispongono al cambiamento. Qui in “Tutto il mondo fuori” si racconta qualcosa di più, storie di salvezza che passano dalla formazione e dal lavoro. Attraverso tre detenuti (Fabio, Alfredo e Ben Mohamed), tre vicende di umanità sbandata e ferita, Oliva e don Pozza ci mostrano come – senza fare sconti a reati e a responsabilità – si possa squadernare con pragmatismo l’orizzonte del cambiamento, della rinascita alla vita.
L’apprendere un mestiere e il suo esercizio in carcere, grazie al sostegno della struttura e al lavoro di cooperative sociali (a Padova sono la Work Crossing per la ristorazione e la polisportiva “Pallalpiede”), può incentivare seriamente la ripresa della propria esistenza, ancor prima di ritrovare la libertà fuori dalle sbarre.
È una libertà interiore, che passa in primis dalla riconciliazione personale come pure dall’accettare un aiuto, una mano salda per rimettersi in piedi. Ancora una volta, le parole di papa Francesco, “nessuno si salva da solo”. E ce lo ribadisce con chiarezza anche il direttore del carcere “Due Palazzi”, Claudio Mazzeo, indicando come le misure alternative riducano del 70% la recidiva nei detenuti.
“Tutto il mondo fuori” si rivela un documentario di impegno civile, senza una graffiante carica di denuncia, ma con un solido sguardo educativo. Il film ci accosta al mondo delle carceri senza ricorrere a retorica, pietismi o stereotipi. Quello che compone Oliva è un racconto asciutto, puntuale e onesto, rispettoso della comunità carceraria tutta. Un racconto marcato anche da poesia, quella che si compone sui volti di un’umanità ferita, dispersa, ma in ultimo ritrovata. Storie di umana salvezza. Dal punto di vista pastorale, il film è consigliabile, poetico e adatto per dibattiti.

(da Agensir, 8 maggio 2020)

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