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In tutto il mondo, questo è tempo di carnevale. A Milano e nella diocesi ambrosiana il Carnevale si protrae fino a sabato (il motivo, narra la leggenda, è perché un anno Sant’Ambrogio si trovava, in quel periodo, fuori sede e la città si rifiutò di festeggiare il Carnevale senza il proprio pastore): ciò diede origine a una sorta di “pellegrinaggio di carnevale” dai paesi vicini, da parte di chi voleva allungare i bagordi del Carnevale, prima di entrare nel clima penitenziale ed austero della Quaresima.
Anche i canti carnascialeschi del Magnifico Lorenzo ce ne fanno memoria: Carnevale, nel tempo liturgico, è un po’ l’«eccezione che conferma la regola» e così è spesso vissuto, anche con qualche fraintendimento, per altro. Perché pensare al Carnevale come a “una boccata d’aria”, equivale, del resto, a pensare alla fede del tempo ordinario come a una costruzione. Che è un falso storico perché, sempre e da sempre, la proposta di Cristo passa da un “se vuoi” e mira alla felicità totale.
Del resto, chi non ” fa festa sul serio”, sarà poco serio quando farà penitenza, perché c’è una seriosità del gioco che rende idea della serietà ordinaria: ogni aspetto della vita è giusto che sia vissuto appieno, affinché possa essere sperimentato integralmente.
Il famoso invito del Magnifico «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza» è qualcosa di più di un semplice cogliere l’attimo (carpe diem). Coriandoli e frittelle, stelle filanti, maschere, costumi, chiacchiere e bugie. È il carnevale: tempo dello scherzo, della leggiadria, dell’incoscienza, forse anche di un pizzico di quella follia che è sinonimo di sanità mentale (perché – come diceva san Filippo Neri – “un santo triste è un tristo santo”). Ricordando però, che, a propria volta, l’esagerazione è la rovina del divertimento: ubriacarmi non mi fa più felice, solo più incosciente di quel che sto vivendo; meglio assaporare un buon di birra o di buon vino, sobri e presenti a se stessi, affinché anche il divertimento possa costituire un ricordo rilevante nella nostra vita.
Di fronte alla sfilata di tante maschere su grandi e piccini, è inevitabile che risuoni nelle orecchie il monito, di pirandelliana memoria: imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
In parte, è vero: sono molti i ruoli che ciascuno di noi ricopre nella nostra vita, a seconda dei luoghi e delle persone che frequentaiamo, del contesto in cui ci inseriamo, del lavoro e del divertimento che scegliamo di fare. Siamo studenti, professori, liberi professionisti, impiegati. Ma sulle piste da sci diventiamo sciatori, in una città diversa dalla nostra siamo turisti, per i boschi siamo escursionisti, in casa d’altri siamo ospiti, all’amico siamo amici. Quant’è triste, però, quando ci accorgiamo che stiamo recitando un copione, abdicando a vivere veramente la nostra vita. La recitazione è arte eccelsa, che però non deve mai superare il sacro confine del palcoscenico, oltre il quale, invece che essere utile e catartica, diventa solo dannosa.
Che il Carnevale, in questo senso, possa essere davvero l’eccezione alla regola, per cui la nostra vita è volta a costruire un volto autentico, di cui non abbiamo a vergognarci di fronte a chicchessia.

In conclusione, indossiamo la maschera – purché sia una sola volta all’anno e non per tutto l’anno – e godiamoci la festa, com’è giusto che sia. Possa, anzi, essere, per ciascuno di noi, un’occasione in più per assaporare il gusto dell’autenticità e la sua irrinunciabilità, nella nostra vita.

Fonte immagine: Pixabay

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