Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Tuono, vento, fuoco. Mentre i discepoli sono rintanati nel Cenacolo. Quando sono “ colmati di Spirito Santo”, i pavidi uomini di Galilea, escono dal loro nascondiglio, affrontano la folla, che oggi definiremmo multietnica, e parlano loro, nonostante siano solo dei semplici pescatori, che certo non avevano studiato alla Facoltà di Lingue straniere.
Ecco il primo carattere dello Spirito Santo: la facoltà di parlare al cuore delle persone, al di là dei possibili fraintendimenti che possono nascere dalle parole, persino quelle più retoricamente raffinate.
Tuttavia, san Paolo, nella lettera ai Corinzi, rende giustizia alla ricchezza dello Spirito Santo, sottolineando come i doni da lui forniti siano innumerevoli e variegati. Se si parla del numero 7, è appunto perché, nelle Scritture, tale numero richiama la pienezza.
«Tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole». In questo versetto, pur breve, l’Apostolo richiama due concetti importantissimi. Il primo è l’unità: la molteplicità e l’originalità dei doni (carismi), non deve portare a pensare che le origini siano differenti; lo Spirito Santo è come una fonte sorgiva, a cui tutti possono abbeverarsi, pur ricevendone diverse ricchezze. La seconda è la liberalità del dono: Dio non è meritocratico. Quanto meno, non come ci aspetteremmo. Dio non dona in modo proporzionale, ma sempre in modo s-proporzionato e (la storia ce lo insegna) difficilmente si basa sui criteri umani. Anzi, spesso, è proprio dove c’è terra bruciata di risorse che nasce, come un fiore nel deserto, una realtà spirituale nuova, che offre il proprio servizio – o, semplicemente – la propria presenza, proprio in seno a quelle comunità che più paiono prive di qualsiasi forte organizzazione ecclesiale alle proprie spalle.
Lo Spirito soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai dove viene e dove va (Gv 3,8): parlando con Nicodemo, Gesù lo paragona al vento, che, incontrastabile ed inafferrabile, permette però di percepirne il passaggio dagli effetti che provoca. Forse, proprio per questo, la Terza Persona della SS. Trinità, risulta quasi “un Dio sconosciuto”1, che rischia di precipitare nell’oblio, rispolverato solo per le grandi feste. Al contrario, però, dal Vangelo si evince come il Maestro desideri che lo Spirito Santo, in particolare dopo la propria dipartita, diventi il nostro più fedele alleato: suo specifico ruolo è infatti – in particolare – ricordarci (Gv 14, 26) le parole del Verbo, affinché la Chiesa, dalla Pentecoste in poi, possa continuare a portare Cristo nel mondo, evitando l’autoreferenzialità, ma coltivando un costante “cristocentrismo”. Del resto,è interessante notare come il brano proposto preceda l’arcinoto capitolo 13, che contiene “l’inno alla carità”: lo Spirito Santo non è soltanto innovatore, ma soprattutto fattore unificante. Basti pensare che – durante la preghiera eucaristica – la richiesta è al Padre, affinché, tramite lo Spirito, renda presente il Cristo, nel pane e nel vino.
«Non vi lascerò orfani: verrò da voi» (Gv 14,18): in questa rassicurazione traspare tutta la maternità di Dio, che si oppone alla sensazione (giustificata o meno) di essere orfani. Essere figli è la condizione umana per eccellenza: ecco perché sentirsi orfani rappresenta il dolore per antonomasia. È il senso di abbandono più estremo, che Cristo stronca sul nascere, garantendoci la sua Presenza, ancora oggi sperimentabile in una compagnia di fratelli nella fede e nei sacramenti che ci ha lasciato a placare la nostalgia del Cielo.
«In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,20): in questo versetto, si parla di una molteplice compenetrazione d’amore, comprensibile a fatica, perché richiede una notevole apertura del cuore. Ci mostra l’abbraccio della Trinità, nel quale siamo invitati ad entrare, perché la comunione genera sempre nuova comunione, allarga gli orizzonti e – scevra di ogni gelosia – esprime la carità che vede e valorizza la bellezza dell’altro. Anche, e soprattutto, quell’altro che condivide la mia quotidianità e che – ogni tanto – è causa di un certo fastidio.

 (rif. letture festive ambrosiane della Domenica di Pentecoste)

 1 efficace espressione usata da J. Ratzinger ne Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, 1978


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