Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

schwazer

Il figliolo prodigo che lo sport, da figlio-maggiore qual’è, mai accetterà di riaccogliere in casa. Eppure, nel paese bizzarro dello sport, è la prima volta che un atleta ammette l’errore, senza accampare scuse imbecilli: il sugo avariato, l’urina trafugata, il formaggio tarocco, la saliva della suocera. Ai ghigliottinai, però, non basta: “Ha tradito: che marcisca!” Con otto anni di squalifica, l’equivalente di un ergastolo sportivo, gli hanno murato la porta di casa. Alex, dal canto suo, è sincero – «Questa non è l’apologia di un angelo» – ma senz’apparire affatto uno zerbino: «Non è nemmeno la confessione di un diavolo». È la storia di un’anima in cammino, un’anima in marcia. “Di un’anima marcia!” mi correggeranno alcuni, pensando ad uno sbaglio di battitura. Nient’affatto! Dopo il traguardo (Feltrinelli 2021) è la storia di un’anima in marcia. Dell’uomo, Alex Schwazer, che è stato crocifisso dalla sua grande impresa dorata: «Non sapevo più con chi parlare – racconta nelle sue Confessioni laiche -, perchè tutti vedevano in me soltanto il campione, il carro armato. Nessuno voleva vedere la stanchezza, l’esaurimento, l’assenza di motivazioni». Siccome sei un vincente, non sarà più calcolata la tua fragilità. Oneri, onòri di chi nasce tale: in tutti i campi. Anche nella Chiesa, in ogni trambusto del quotidiano.
L’eroe di Pechino 2008, però, è un’anima fragile, una terra turbolenta, una brocca di cristallo. Un cervello che, un giorno, decide d’allearsi con l’allenatore più suadente ch’esista in circolazione: «Ad aiutarmi c’era solo la mia stupidità», racconta. La stupidità del doping, la fallacia della menzogna, il sospetto che la fatica possa essere scansata. Londra 2012: Tutti giù per terra! Dalle stelle di Pechino alle stalle della capitale londinese: il mondo va così, perchè lagnarsi? Il fatto è che, senz’avere mai viaggiato nella tratta stelle-stalle, non si comprende che «ci vorrebbe forse un po’ più di moderazione dopo le vittorie, e meno accanimento dopo le sconfitte. Il circo mediatico si mobilita solo per le vittorie rumorose, per le cadute altrettanto rumorose». Per evitare la mattanza non è servita nemmeno la faccia di Giuda che, a differenza di quello dell’Evangelo, ha ammesso il suo tradimento, ricevendo il perdono prima da altri che da sè. Non sarà mai facile, però, chiamarsi col proprio nome quando la gloria si mescolerà con il fango: «E’ strano. Quando ti attaccano un’etichetta è difficile strapparla via, nel bene e nel male (…) Peccato che io detestassi il fatto d’essere Alex Schwazer». Anche perchè le supposizioni, stilate dal divano-letto, saranno sempre delle diagnosi ineccepibili: «Qualcuno ha scritto che un tarlo doveva essersi insinuato nella mia testa. Che mi avevano lasciato solo. Qualcun altro mi aveva definito un caso umano. Un traditore. Un ragazzo in fuga da se stesso». La ferita, invece, era altrove, più in profondità. E per riconoscerla non bastava essere degli specialisti, occorreva essere umani: «Non è che non avessi voglia di fare fatica. Vorrei che la fatica avesse un senso».
Per qualcuno, però, non basterà nemmeno questo: l’aver pagato la somma pattuita. Sarà urgente dissolversi: «Non ho mai pensato di nascondermi: per quanto costasse, ogni giorno sapevo di dover guardare in faccia le mie responsabilità». Il mondo, comunque, mai lo perdonerà, ti perdonerà. Nemmeno accetterà che qualcuno ti tenda una mano di pronto-soccorso: «Chi mi stava aiutando a rientrare nel mondo dello sport – in modo trasparente e pulito – era lo stesso (Sandro Donati, ndr) che mi aveva smascherato prima di Londra. Non mi ha mai detto: “Stammi alla larga, dopato”. Mi ha ascoltato. Ha voluto conoscere la mia storia. Mi ha offerto il suo aiuto». Ovverosia l’arte della (ri)educazione: non è da tutti, non tutti sanno essere educatori. Alcuni rimarranno solo agitatori.
In Alex, tuttavia, l’uomo è sempre valso molto più dell’atleta. L’atleta che a Rio 2016 hanno voluto esporre al pubblico ludibrio, ha brindato alla medaglia d’essere doppiamente papà, di Ida e Noah: «Cinque anni tra i più difficili della mia vita, salvati dalla presenza di Kathi (la moglie): mi ha impedito di affondare». È sempre così: come uomini si vale non per un oro al collo, ma per la propria dignità difesa coi denti, a denti stretti. Costi quel che costi. Il resto? «Non posso sprecare il mio tempo nel tentativo di ragionare con persone che non vogliono ascoltare». In quanto a vita, ragionare così è da medaglia d’oro.

#iostoconAlex

(da Il Sussidiario21 novembre 2021)

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