Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pale blu dot

La finitudine abita nella sua essenza di carne mortale, nella fragilità dei giorni contati ed in balia di eventi che sfuggono al controllo. Il suo spirito, però, ha sete d’eterno, non s’accontenta della sufficienza, spinge lo sguardo anche là dove non si vede nulla.
È l’umanità, che fin dai suoi albori è sempre stata una fune sospesa tra confine e infinito, per la quale il limite non era un luogo da non oltrepassare, ma punto di arrivo e di nuove partenze. Anche per questo non ci fu modo di tenerla ancorata con lo sguardo a terra: alzare gli occhi al cielo fu da subito riflesso innato quanto il respirare.
Incastonati nel cosmo, gli astri rilucono come pregiati gioielli su morbido velluto. Impossibile ancora coglierne la vera natura, facile però ammirarli con timore reverenziale, come dinanzi ad un trono regale. Per millenni essi furono divinità dalle più svariate caratteristiche: benevole o capricciose, ingannatrici o vanitose, protettrici o distruttive.
Fino ad Abramo, uomo di sabbia e cielo, deserto e silenzio.
Venne la notte in cui la volta celeste fu vista per la prima volta non come un agglomerato di dei, ma come una promessa da far saltare il cuore di gioia. Quella notte le stelle ebbero un sorriso di vecchio dal cuore di bambino ad osservarle con cura, come per contarle una per una.
Passarono i secoli, l’umanità si incamminò verso nuove conoscenze, nuovi confini, nuovi sentieri da scoprire e quella sete d’infinito era sempre là, mai placata, ma anzi rinfocolata ad ogni traguardo. Sull’altro piatto della bilancia il timore dell’ignoto, l’aggrapparsi con tenacia a idee che regalavano sicurezze: un principio d’autorità che faceva da àncora e da porto sicuro, calda coperta sotto cui rifugiarsi. Se la Terra non era più il centro dell’universo, che ne sarebbe stato dell’uomo, culmine del creato? Se era solo un pianeta tra i molti, che senso avrebbe avuto la vita umana con le sue lotte, le sue vittorie e sconfitte?
Se solo un granello di polvere sospeso tra i raggi del sole, perché mai la divinità avrebbe dovuto guardarlo con interesse?

«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?»
(Salmo 8,4-5)

Quell’anelito di fede diventava allora un punto interrogativo gigante, una domanda che stritolava speranze, che spegneva l’antico sorriso di Abramo e ne frantumava i sogni. Per alcuni non parve vero poter dichiarare con spavalderia che quello del patriarca era stato un fidarsi illusorio.
Niente più centralità assoluta, più nessun “voi siete qui” segnato con un bel puntino rosso nel mezzo di un cosmo delimitato da cieli: il diventare un luogo tra tanti, e neppure di particolare importanza, è un rivestirsi d’indefinito che spiazza e fa venire le vertigini.
La nostra piccolezza, a confronto con le smisurate grandezze e le inenarrabili distanze, fu un epocale ridimensionamento con cui fare i conti.
Quando, nel 1990, la sonda Voyager 1 girò il suo obiettivo verso di noi e ci regalò la sua vista dai confini del Sistema Solare, quel Pallido Puntino Azzurro (in originale Pale Blu Dot) parve confermare l’audacia di chi voleva farsi beffe dell’anelito dell’essere umano.
Dov’è la tua importanza, o uomo, su quel granello di polvere che danza nel vuoto?
Come puoi pensare di essere al centro di tutto, se sei solo qualcosa di minuscolo ed insignificante se raffrontato all’enormità dello spazio?
Fu invece l’ideatore della foto, l’astronomo e divulgatore Carl Sagan, a dare la risposta che spalancava le finestre per lasciar entrare l’infinito.

«Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica. […] Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.»
(C. Sagan, Pale Blu Dot, A Vision of the Human Future in Space)

Per chi ama davvero l’umanità, quel puntino è la porta in faccia ad ogni tentativo di sminuire l’uomo, la sua sete d’infinito ed il suo anelito di fede.
Minuscolo ed insignificante?
Certo, un po’ come il piccolo Davide con il gigante Golia, come la piccola rosa su un asteroide a confronto con un roseto posto in un giardino terrestre.
Ma l’uomo, se vuole, sa anche essere maiuscolo, mirabile come un capolettera miniato con cura, solcato dalle rughe della propria quotidianità.
L’Umanità diventa maiuscola quando non si chiude a riccio ma osa sfidare le distanze cosmiche per conoscerle meglio e per non smettere mai di meravigliarsi. Quando, ogni santo giorno, si rialza per mettersi in gioco, nonostante la fatica, le sconfitte, i tradimenti subiti. Quando sa porsi un canto nel cuore ed occhieggia al divino con quella fede che è amore verso il prossimo e verso un pallido puntino blu che danza nello spazio senza confini.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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