Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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All’ultima riga del Vangelo, mi si è annunciato davanti mio papà, quasi mi avesse aspettato che uscissi da quella vigna tutta colma di parole, d’immagini, d’improperi. L’ho tradotto così quello sguardo che mi fissava: “L’hai capita bene la parabola che hai letto? Ripensa a quelle nostre serate, anni Novanta”. Quelle sere le ricordo come fossero stasera: erano d’autunno, malinconiche, stagioni di sconsolante miseria. Tornavamo a casa e lo incrociavamo muto, nascosto nella sua officina. Poi – quando proprio non ce la faceva più – capivo che aspettava che noi bambini andassimo a giocare per chiedere cinquemila lire alla mamma, per andare a fare benzina: era così stanco d’andare a piedi per cercare-lavoro, che si sforzava di vincere quella stupida vergogna che per troppe sere gli rigava i suoi lineamenti di padre. Quando perse il lavoro, mio padre perse la dignità, il sorriso, la magia dei suoi occhi azzurri. Non perse mai la mamma, una di quelle donne-leonesse capaci di tenere-su gli architravi in pieno terremoto. Lo guardava, appena rientrava dopo le otto-ore lavorative. Pareva rubare le parole al Cristo: «Perché ve ne state qui oziosi tutto il giorno senza far niente?» Mio padre la guardava, scorgevo – da dietro l’angolo – che si parlavano con gli occhi tristi. E, mica lo sapevo in quelle sere, pure mio padre chiedeva in prestito le parole al Cristo per esserle all’altezza: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Non era il gesto d’un fannullone quel suo stare-a-casa: era l’umiliante storia di un padre al quale nessuno pareva disposto a dare fiducia, voleva prendere a giornata. Il mondo pareva non-capire, non-voleva capire. Qualcuno capì.
Dio in agguato: ora pro nobis.
In quelle sere m’innamorai follemente di questa parabola: era autobiografia del papà più bello del mondo, la storia feriale di casa mia. In-malora quelli che si sono lamentati delle ore trascorse al sole, delle braccia affaticate, dei muscoli spossati. Sono stati bravi, hanno lavorato, sudato: non rinfaccio loro nulla. Ma il mio papà – che tante sere ho visto seduto alle cinque del pomeriggio sui gradini di casa (non al banco dell’osteria) – non era stato un fannullone: semplicemente “nessuno l’aveva ancora preso a giornata”. Quanto mi rallegravo nel vedere mia mamma all’opera: non gli dava cinquemila lire, gli dava il suo portafoglio, pure lo abbracciava qualche sera. Si preoccupava di non farlo sentire un-nulla dentro quel dramma-operaio: «I vostri compagni arrivati all’ultima ora sono uomini come voi, hanno una famiglia come l’avete voi» (L. Santucci). Alla retribuzione, il Cristo-vignaiolo s’infuria. Rimette le cose in ordine: “La prossima volta leggete bene il contratto prima di accettare. Non vi ho fregato, e poi i soldi sono miei”. Il Vangelo, per chi offende il povero, è ago arroventato sulla pelle: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene (…) Sei invidioso perché io sono buono?» È la verità, mica mentono: è dalla mattina che lavorano. Però, sotto-sotto, sono grandi bugiardi: dicono, senza dirlo, che papà non ha lavorato. Che ha cominciato alle cinque, che prima era sotto il fico a grattarsi i capelli. Mica hanno capito, loro-signori, che il lavoro duro non è quello di zappare la vigna, ma di volerla-zappare e non poterlo fare. Non trovare nessuno che ti dia fiducia, un accredito di speranza, un’altra possibilità.
Cristo, quando arriva, fa i conti a-modo-suo. Quand’è arrivato a casa mia – vestito in borghese sotto mentite spoglie – a papà ha pagato in monete di gioia non solo quel poco lavoro ma tutta la pena di quei mesi in cui si vedeva rifiutato, le lacrime mute di quella stagione, il pane che mancava ai bambini. Gli ha pagato, col valore degli straordinari, lo struggimento di settimane intere nelle quali nessuno lo voleva assumere. Papà è un uomo delle cinque-del-pomeriggio: in quanto a fierezza, ancora cerco chi lo possa battere ai miei occhi di figlio. Pure io sono prete-delle-cinque, come la supermaritata di Samaria, Maddalena, Zaccheo, Levi, Disma. Tutti canaglie che il Cielo ha chiamato all’ultimo, sul finire, al limite. Allo scadere: col sogno di non farli scadere.
Quando papà ha ritrovato lavoro, quella sera si riaccesero i sorrisi: scoprimmo che il Vangelo era una storia scritta negli sguardi di mamma e papà.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Matteo 20,1-16).

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