Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Un popolo in esilio. Un re (Ciro, re dei Medi e dei Persiani) che trionfa dei nemici. Questa la storia che Israele vede svolgersi, innanzi a sé, lasciandolo pressoché impotente, nel VI secolo a.C., a Babilonia.
Di questo riflette il capitolo 45 di Isaia, dandone, tuttavia, una lettura in chiave salvifica, come testimonia la supplica: «Volgetevi a me e sarete salvi» (Is 45, 22). La conversione richiede è sottolineata da una richiesta dinamica. Volgersi indica, infatti, il movimento di qualcuno che, fino a quel momento, era diversamente indirizzato, almeno con lo sguardo ed il capo, probabilmente con l’intero corpo.
Per convertirsi, bisogna anzitutto voltarsi da dove siamo rivolti in questo momento. A cosa, o, meglio: a chi si rivolge il nostro sguardo? Cosa lo cattura e lo attira a sé in modo irresistibile?
Senza conversione dello sguardo, non c’è conversione né del cuore, né – tanto meno – della vita.
A volte, abbiamo una visione distorta della conversione. Temiamo comporti sconvolgimenti esistenziali. Che ne usciremo, insomma, con le ossa rotte. E non ci accorgiamo che è senza conversione che abbiamo le ossa rotte, giriamo a vuoto e viviamo, sempre più scontenti, ogni ora della nostra vita, sempre più stanchi e rassegnati.
In realtà, è vero che comporta uno sconvolgimento. Ma non sempre, non per tutti significa “abbandonare tutto”.
Sicuramente, si tratta di intraprendere un viaggio. Infatti, come dice Proust: “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Quindi, forse, dovremmo domandarci: quante cose, nella nostra vita, hanno bisogno di uno sguardo nuovo, magari un po’ più indulgente e carico di compassione?
Solo se fissiamo in Dio lo sguardo, la realtà in noi e intorno a noi può essere plasmata in vista del Suo Regno. Perché è solo se cerchiamo di guardare attraverso gli occhi di Dio che riusciamo ad amare anche ciò che, in prima istanza, ci risulta meno amabile: l’uomo, le sue colpe, il peccato, la malattia, le quotidiane difficoltà.
È proprio la familiarità con la Parola di Dio che ci consente di comprendere un po’ meglio il Suo sguardo:

«Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua» (Is 45, 23)

Solo Dio può dire questo, di sé: solo Lui può giurare su se stesso, perché la Sua Parola è eterna, quella stessa Parola che, rivestita di carne, in Cristo, rende vero anche il seguito, ripreso dallo stesso apostolo Paolo (Fil 2, 10).
In questo, in fondo, risiede la speranza di chi crede: Chi parla è affidabile, perché necessariamente veritiero, incapace di menzogna, al contrario del Nemico, che ne è, invece, il più astuto utilizzatore.

Anche la seconda lettura utilizza una metafora dinamica, per parlare della fede, quasi a ricordarci – ancora una volta, che pensare alla fede come qualcosa di statico, fermo, tranquillo, sia, quanto meno, fuori luogo:

«Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta» (Fil 3, 13-14)

Un’immagine che suggerisce volizione, determinazione, resistenza alle avversità, ma, più di tutto, pur non nominandolo, suggerisce uno sguardo, lanciato (proteso) in avanti, oltre le difficoltà, gli ostacoli che si manifestano nell’immediato. È la consapevolezza che non è che tutto si esaurisce: c’è un oltre, anche non visto, che conduce più in là. È necessario percorrere una strada, attraversare una difficoltà, procedere – magari – per sentieri accidentati. Eppure, c’è un suggerimento a proseguire. Perché nessuno di questi costituisce la nostra meta, il punto di arrivo, cui siamo chiamati. Che è Cristo stesso, che, pur accompagnandoci, già ci precede.
Ce lo ricordano le vite dei santi: uomini capaci di agire, in concordanza coi suggerimenti dello Spirito, sulla base delle esigenze del tempo che vivevano, che mai erano in opposizione coi bisogni ed i desideri sempiterni dell’uomo.

Il Vangelo contiene un’immagine, che ci aiuta comprendere il Regno. Si parla di una pesca, di una barca che raccoglie pesci dal mare: in una pesca a strascico, non riesce a fare discriminazione immediatamente; ecco, quindi, che questa è demandata ad un momento successivo, quando, deposte le reti, con le barche a terra, si visiona il contenuto e lo si seleziona.

Qualcuno vuole vedere in questa parabola una visione apocalittica; tuttavia, soprattutto in relazione alla conclusione («ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei Cieli è simile ad un padrone di casa che, dal suo tesoro, estrae cose nuove e cose antiche»), è forse più plausibile appoggiare una visione legata all’interiorità dell’uomo stesso. Prima di pensare ad un giudizio finale, siamo chiamati a pensare alla nostra quotidianità. Nel nostro quotidiano, con i “pesci buoni” (le nostre potenzialità), troviamo sempre dei “pesci cattivi” (ritrosia, maldicenza, tristezza, sfiducia) da estirpare, sradicare, dopo accurata selezione, affinché possiamo risplendere come figli della Luce. Diventare discepoli del Regno equivale a mettersi in ascolto della Parola: quella Parola, che, essendo eterna, anche se antica, è sempre nuova, perché dice sempre qualcosa di nuovo al cuore dell’uomo, lo sa provocare verso il Bene, incoraggiandolo a coraggiose scelte in cui innovare il proprio sguardo sul mondo, alla luce dello sguardo amorevole di Dio, sul creato e su ogni creatura.  


Rif.Is 45, 20-23; Sal 21; Fil 3, 13b- 4, 1; Mt 13, 47-52

Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole nuove, Qumran2.net

Fonte immagine: latinacorriere

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