Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
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(Il Fatto) – Il 25 aprile 2011 l’appuntato scelto Antonio Santarelli, 44 anni, viene ferito gravemente durante un posto di blocco poco lontano da un rave party nella zona di Pitigliano (Grosseto). Ricoverato a Montecatone (Imola), rimane per oltre un anno in coma irreversibile, fin quando muore l’11 maggio 2012. Uno dei giovani fermati dal carabiniere è Matteo Gorelli, 22 anni, a vent’anni per l’omicidio. La vedova del carabiniere, ClaudiaFrancardi, e la mamma del suo uccisore, Irene Sisi, oggi sono riuscite a trasformare il loro dolore in energia positiva e sono diventate amiche.


(Testo di Marco Pozza) – Il peso di una tragedia non conosce eguali: chi ne esce, sovente barcolla tra solitudine e depressione. Con addosso, forse, anche una sete di vendetta qualora si trovasse l’occasione di avere dinanzi agli occhi il responsabile di quell’immane dolore. Tra Claudia e Irene, invece, a vincere è ancora una volta la vita, col desiderio far sbocciare una pagina di riconciliazione. Da una parte la vedova di un carabiniere ucciso, dall’altra la mamma del ragazzo che l’ha ucciso: oggi, su quelle ceneri, arde la fiamma di un’amicizia che sorprende, nata nell’attimo in cui il perdono ha disarmato la vendetta.
C’è una data che le accomuna: 25 aprile 2011, giusto all’indomani della Pasqua: nessuna delle due donne è presente all’appuntamento, le rappresentano i loro due uomini. Quello di Claudia: il marito Antonio Santarelli, appuntato scelto, in servizio nei pressi di Manciano (GR). Quello di Irene: il figlio Matteo Gorelli, un ragazzo ormai prossimo ai vent’anni. L’appuntamento, non scelto, è nella Maremma toscana: là i mercanti di morte hanno organizzato un Rave Party. L’uomo con la divisa – dietro la quale si nasconde una moglie e un figlio – compie il suo dovere: un controllo d’ordinanza, a Matteo stavolta, ad un posto di blocco. I valori sono sballati, la giovinezza è a rischio, il senso di un padre anche dietro la divisa: «non riusciva (Antonio) a togliersi dalla mente un ragazzino che era stato ucciso da un ubriaco» – dirà poi Claudia. Un verbale e quel posto di blocco diventa lo scenario di una devastante follia: Matteo prende a bastonate in testa Antonio, fino a tramortirlo, e al collega di Antonio fa perdere un occhio. Antonio morirà dopo tredici mesi di coma irreversibile, Matteo per quel gesto omicida riceverà in appello vent’anni di carcere, che sta scontando in una comunità di recupero di don Antonio Mazzi a Milano, tra studio e ricostruzione della sua giovinezza ch’è andata deragliando. Fin qui la storia parla di uomini e di una notte: quella della natura, ma anche la notte del cuore.
Dietro di loro, due donne: una moglie e una madre. Piangono ma non disperano, tremano ma non fuggono, soffrono ma non mollano: s’inabissano nella loro intimità per dare un nome alla realtà. Irene, qualche mese dopo il misfatto, assieme al papà di Matteo scrive una lettera a Claudia: «una lettera non è invadente – spiega Irene -, la si può leggere, cestinare o deporre in un cassetto. Non m’aspettavo di trovare risposta». La risposta, invece, arriva. Inaspettata, di sorpresa, vitale: «Le parole scritte da Irene sapevano di umiltà – confida Claudia – e dopo qualche mese ci permisero d’incontrarci, io e Irene». L’incontro tra due donne: la moglie del carabiniere ucciso, la mamma del ragazzo che l’ha ucciso. Ci sono giorni in cui essere donna significa tenere accesa la vita, giorni nei quali essere madre comporta il metterci la faccia, scendere nelle notti senza più speranza dove giacciono i loro figli: sono i giorni che solo le donne sono capaci di abitare. I giorni sofferti di Claudia: «volevo dare un senso alla morte di mio marito». I giorni laceranti e dubbiosi di Irene: «mi sentivo responsabile anch’io di quello che aveva fatto mio figlio. Perchè se un figlio arriva a fare quello che ha fatto Matteo significa che qualcosa è sfuggito ai genitori (…) Se esistesse il reato di omicidio morale io sarei certamente colpevole» – riflette Irene davanti ad una platea attonita e sbigottita. Due donne, due intimità straziate, due storie d’intrigante bellezza. Di riconciliante speranza.
Claudia e Irene s’alleano. Claudia: «se Matteo si ritroverà, mio marito non sarà morto invano». L’ha confidato anche a Matteo, il giorno in cui decise d’incontrare quel ragazzo, dopo essere stata in pellegrinaggio a Medjugorje per chiedere a Maria la consolazione del cuore: «ho stretto le sue mani nelle mie quel giorno – racconta commossa Claudia – ma non sarei stata capace se non avessi avuto tra le mani il mio rosario. Che, poi, è diventato il rosario di Matteo. Il mio regalo a Matteo». Irene: «E’ necessario scavare a fondo per comprendere il perchè del male». Claudia, Irene e un percorso di fede condiviso: non si tratta di giustificare il male, ma di comprenderne i perché più fastidiosi: ci sono volti che prima di amare è necessario imparare a decifrare, prima ancora a scrutare nel profondo per risvegliarne la bellezza perduta. Non è questione di cancellare certe pagine ma di infondere in esse una prospettiva diversa. D’imbattersi in un Dio che sa tramutare il male in un percorso di fioritura del bene, dopo i giorni della rabbia: «Incontrare Irene e Matteo – ci tiene a sottolineare Claudia – mi ha aiutato a dare un senso a ciò ch’era capitato a mio marito». A ciò ch’era capitato addosso a Matteo: «Volevo guardare in faccia la realtà – ammette Irene parlando della sua visita al carabiniere quand’era in coma – per diventare lo sguardo di mio figlio che non poteva vedere».
Perchè quel figlio aveva bisogno di fare i conti con la realtà, con il suo misfatto: «per i giornalisti mio figlio è nato il 25 aprile 2011. In realtà dietro c’è tutta una storia di fatica e di errori, di assenze e di silenzi, d’ansia e di confusione». Irene incontra Claudia, Claudia incontra Matteo: anche Cristo nei Vangeli s’incontra accettando il rischio dell’incontro con l’altro. Col forestiero.
I detenuti di Padova, mentre le donne si raccontano, si passano i fazzoletti di carta per asciugarsi le lacrime: loro, uomini d’armi e di battaglie, disarmati dalla fortezza d’animo di due donne. «L’amore vince l’odio, la vendetta è disarmata dal perdono». Anche se qui non si tratta di perdono: «il perdono viene solo da Dio» – dice Claudia. Non è perdono, non è nemmeno buonismo, però: «Matteo deve scontare la sua pena in un posto giusto. E deve farlo per Matteo, non per Antonio». Nel nome della vita: che, parole di donna, è amare l’uomo quando meno se lo meriterebbe. Perché forse è proprio allora che ne ha più di bisogno.

(“Storia di copertina” da Credere, n. 28, 13 luglio 2014)

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