Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

uovaCerti viaggi non sono semplici viaggi: s’avvicinano molto ai pellegrinaggi. Un andare che mette in gioco tutto l’uomo: la vista e il tocco, il gusto e l’ascolto, l’olfatto che è il senso strettamente legato alla memoria, al fare memoria. L’uomo di fede compie pellegrinaggi verso i santuari, luoghi in cui la fede stessa è divenuta storia: non favola, nemmeno mito, seriamente storia. Certi luoghi, poi, sono divenuti santuari laici, segni e simboli eretti a patrimonio mondiale dell’umanità. A favore del pensiero, della memoria, dell’umanizzazione: non c’è traccia di morale, semplicemente sono la traiettoria visibile di pensieri che sono diventati parole, di parole che sono diventate gesta, di gesta che sono diventate storia. Pagine di meraviglia, di bruttezza, d’imbarazzante libertà. Pagine che non sarà più possibile scansare, pena la disavventura di rimanere bambini.

Viaggiare per fare memoria è tutt’altra cosa dal viaggiare per il semplice trastullo di viaggiare. Chi intraprende viaggi per fare memoria conosce bene lo stretto connubio che tiene in armonia il passato, il presente e il futuro: la memoria di ciò che è stato, l’attenzione a ciò che sta accadendo, l’attesa di ciò che è solamente promesso, forse intravisto. Un’unità di tempi a favore di un unico sogno: che l’uomo diventi tale per davvero. “Non conoscere ciò che è stato prima di noi – scrisse il maestro Cicerone – è voler rimanere sempre dei bambini”. Ci sono cose che non si conoscono, cose che non si capiscono al volo, cose la cui decifrazione chiede una lunga gestazione: sono le cose della memoria, quelle più care. Forse anche quelle essenziali. Non è dunque uno “spreco” viaggiare nella memoria, intraprendere dei viaggi a ritroso nella storia, costringersi e condannarsi a guardare in faccia ciò che è stato: è semplicemente doveroso, oltre che essere un’opportunità. Sono i viaggi che non si scelgono da soli: Auschwitz non è Mars-Alam, una certa Polonia non è la Camargue coi fenicotteri. Certi spazi non sono inutile mutismo: sono giardini che, silenziosi, urlano parole e sudano narrazioni. Non si scelgono questi viaggi: c’è qualcuno che te li propone, qualcuno che – avendo scoperto prima di te un tesoro – te ne fa dono, qualcuno che ti mette nelle condizioni giuste per poter riflettere confrontandoti con la storia e con gli altri. “Sprechi” sono i viaggi-amarcord: rimpiangere il passato non serve. Questi, invece, sono viaggi-passaparola: il tam-tam con il quale nei Vangeli s’incontra addirittura Cristo.
Auschwitz è uno di questi santuari, il santuario della banalità. Il pugno di terra nel quale si è manifestata «la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male» (H. Arendt). Imbattersi in questa banalità non è uno spreco di tempo, bensì un investimento: lasciarsi stordire e inorridire da ciò che è stato per capire che quegli aguzzini non erano né sadici né perversi ma semplicemente normali. Quella normalità che in città, sotto gli occhi di tutti, sovente è il grembo di atrocità inimmaginabili: tutto parte sempre da poco più di nulla. Da un pensare, dall’inezia di una parola, da un gesto quasi impercettibile. «Diventa te stesso» è lo slogan che sovente esce dalla bocca delle agenzie educative. Gli antichi greci erano certi dell’esatto contrario: «Conosci te stesso». Com’è possibile diventare se stessi se non si conosce se stessi: chi siamo, da dove veniamo, qual è la nostra storia, chi sono stati i nostri antenati?
Si può essere indipendenti dalla politica ma non è possibile rimanere indifferenti alla politica. Tanto meno ad un certo suo parlare ciarlatano. Eppoi questa non è per niente politica: è la vita della gente. Fatta di piccole storie, d’immani tragedie, d’arricchenti riverberi. Irridere questa forma di conoscenza è irridere la storia. Quella storia che, se irrisa, sa ripetersi per fare promemoria.

(da Il Mattino di Padova, 28 ottobre 2014)

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