Nel libro di quello che è definito il “Secondo Isaia”, l’invito è quello di partecipare ad un banchetto dove tutti sono invitati e chiunque potrà gustare cibo e bevande succulenti, “senza denaro” e “senza spesa” (Is 55,1). La promessa è di abbondanza: un banchetto, come una festa, in cui tutti potranno saziare la propria fame e la propria e nessuno potrà pentirsi di aver scelto di parteciparvi.
Il banchetto di Dio è presentato nella sua caratteristica di generosità e premura. Accanto alla larghezza con cui dispone verso tutti dei propri doni, è presentato infatti anche con la caratteristica di chi “largamente perdona” (Is 55,7).
È necessaria una risposta dell’uomo, nei confronti di Dio che ne interroga la libertà; tuttavia, può avvicinarsi con fiducia a Dio, perché Egli vuole la compagnia dell’uomo: nel mistero dell’Incarnazione ne abbiamo avuto la più grande conferma: Dio non teme di inginocchiarsi fino alla misura di farsi Bambino. In Gesù, Dio ha preso la nostra carne, le nostre sembianze, per potersi avvicinare a noi, e prenderci con Sé, perché «dove sono Io, là sarà anche il Mio servo» (Gv 12, 22-24).
«Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona» (Is 55, 6-7)
L’invito è dunque di rivolgersi a Lui, con la fiducia che non volgerà altrove il proprio sguardo: quando ci rivolgiamo a Lui con sincerità e semplicità, Egli ci è vicino, anche se a volte facciamo fatica a percepirlo, perché l’aridità pervade il nostro cuore. Eppure, non c’è uomo che possa sentirsi escluso dalla possibilità di incontrarLo, perché non c’è peccato che possa essere più grande della larghezza del Suo perdono:
La parola “invocazione” ci riporta, poi, alla mente la parabola del giudice iniquo e della vedova (Lc 18): è un promemoria a pregare, senza stancarci, non perché Dio non ascolti, bensì perché l’esercizio della perseveranza è utile anzitutto a noi: ci aiuta a rimanere fermi nei nostri propositi e, soprattutto, ci spinge a vagliare con attenzione le nostre richieste, purificandole dal superfluo e indirizzandoci verso la gratuità nel nostro rapporto sia con Dio che con i nostri fratelli.
La lettera agli Efesini approfondisce, poi, il ruolo di Cristo come “capo” della Chiesa, già inizialmente affrontato dall’Apostolo, nella lettera ai Colossesi.
«Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia» (Ef 2,15)
Quest’affermazione di Paolo si inserisce, senz’altro nella problematica, molto sentita nella Chiesa primitiva del rapporto che i “nuovi cristiani” (provenienti dal paganesimo) dovessero avere con i cristiani provenienti dall’ebraismo, dunque appartenenti al popolo eletto. La Croce di Cristo “rivoluzione” la visione ebraica, per cui il giusto è protetto e difeso da Dio; Gesù, lasciandosi configgere alla Croce e non impedendolo, ci esorta ad una visione più ampia del disegno provvidenziale, che può passare anche attraverso la sofferenza dell’Innocente, necessaria affinché si possa passare dalla giustizia alla misericordia. È solo grazie a quest’ultima che si può raggiungere la concordia tra due popoli che, fino a quel momento, non sarebbero mai stati in grado di confrontarsi su un livello di parità.
Solo «così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,21). Questo passo ci riporta – idealmente – al banchetto della Prima Lettura o – più facilmente – al ricordo delle familiari libagioni del tempo natalizio appena trascorso. È impossibile non accorgersi dell’abissale differenza che si manifesta in una cena formale (penso, ad esempio, ad una cena di lavoro) rispetto ad un pranzo conviviale, condiviso con volti familiari ed amici. Certo, non tutte le famiglie sono coronate dal dono della serenità. Tuttavia, l’immagine del divenire familiari di Dio non perde fascino, potenza ed efficacia: la familiarità si acquisisce solo con la frequentazione assidua ed informale, grazie alla quale “ti senti come a casa tua”. Non sono tanti i luoghi in cui puoi dirlo: in quei posti, apri il frigo e lo richiudi, confuso, perché non ricordi più cosa stessi cercando; come succederebbe a casa! È questa la sorprendente metafora che racchiude l’immagine che usa San Paolo. Se qualcuno, tra noi, non si sente a proprio agio in famiglia, s’immagini una casa amica in cui si sente a proprio agio: del resto, non si dice, forse che “gli amici sono i fratelli che ti scegli”?
Tuttavia, riflettendo sul Battesimo, che è la scena a cui assistiamo nel brano evangelico, è bene tornare sulla possibilità di essere non-scelti, ma al contempo fortemente voluti. Perché questo è il concetto di figlio: in realtà, siamo anche scelti, ma dobbiamo prima liberare questo concetto dalle sovrastrutture che vi abbiamo aggiunto. Per noi, essere scelti significa essere scelti, in luogo di un altro: un po’ quando da piccoli, si facevano le squadre per giocare e capivamo tutti quanto fossimo desiderati (o meno) dal capitano, in base a quanto a lungo dovevamo aspettare, per udire pronunciare il nostro nome (altro indizio, inutile dirlo, si rivelava, poi, il tono con cui esso era pronunciato). Dio non ragiona così. Dio ci ha scelti, ma non ci ha selezionati: ha scelto ciascuno di noi, come se fosse un figlio unico, perché è unico, nel senso che è irripetibile, pur essendo una persona uguale in dignità e perfezione con gli altri sette miliardi circa, che gli fanno compagnia sul pianeta terra. Ecco perché siamo fortemente voluti: Dio riconosce in noi l’apporto unico ed indispensabile che nessun altro, al nostro posto, può fornire a questo mondo.
«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»(Lc 3,22): dice il Padre, al Figlio, sulle rive del Giordano, quando il recalcitrante cugino lo immerge nelle acque del fiume. «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»: ripete, a ciascuno di noi. Perché, nel Battesimo, ci scopriamo (e ri-scopriamo) figli amati, che Dio “ha amato per primi” (1Gv 4, 19). Prima di ogni nostra ribellione, difetto, mancanza, c’è l’amore di Dio che, precedendo ogni altra cosa, è – intrinsecamente – un invito a diventare migliori. Perché solo l’amore può essere abbastanza convincente da spingerci a cambiare!
Rif: letture festive ambrosiane nel Battesimo del Signore, Anno C (Is 55, 4-7; Sal 28; Ef 2,13-22; Lc 3,15-16. 21-22)
Fonti:
don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
“Sentirsi amati”, Henri Nouwen, Queriniana 2005
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