Vincent Willem van Gogh 022

A volte, a raccoglierci, sulla strada che scende da Gerusalemme verso Gerico, anche a noi capita di non trovare né leviti né sacerdoti disponibili, troppo preoccupati a mantenere la propria rituale purezza. Non ci rimane quindi che adattarci ai samaritani che scendono da cavallo, ci si accostano e, con pragmaticità e talvolta rudezza, riescono a prendersi cura delle nostre ferite in modo efficace. Loro accettano di sacrificare il loro tempo, di rallentare il ritmo, di rubare tempo al commercio, per dedicarsi a noi. Si sporcano le mani e le affondano nel portafogli. Non si accontentano di belle parole, ma regalano gesti concreti. Forse, l’hanno imparato proprio dal commercio. Diversi hanno sottolineato questo aspetto della parabola: il samaritano veniva da Gerusalemme, non andava in pellegrinaggio; se ci era andato, ora stava tornando, o, più probabilmente, era nel numero di quei mercanti che approfittavano di quei pellegrini per ingrossare il proprio commercio su Gerusalemme? In ogni caso, non era sicuramente un ricco nobile, perché nessun nobile si avventurerebbe in viaggi lunghi da solo, senza una carrozza o una scorta. Quindi, era probabilmente un commerciante, un libero professionista, un componente della vituperata “classe media”, insomma. Come se non fosse abbastanza che appartenesse alla genìa dei samaritani, per meritarsi disprezzo, era un capitalista ante litteram!
Eppure, proprio questo deprecabile personaggio merita di riceve uno dei ritratti più encomiastici dell’intero Vangelo. Nella sua pratica visione della vita, dispensa cure con la prodigalità di una madre, sa esattamente cosa serve e quale sia il capitale necessario ad assicurarlo: finché può, ci pensa lui direttamente; dove non può, delega. E, con quest’ottima gestione amministrativa, fa tutto e solo ciò che è necessario, senza inutili formalità né burocrazia.
Era uno con la testa ed il cuore sbagliati, che stava dall’altra parte del muro, che pregava il dio sbagliato, che forse non credeva neppure. Ma che aveva saputo farsi prossimo alle difficoltà di chi non era neppure in condizione di domandare aiuto. 
Talvolta, è così ancora oggi. L’incapacità di essere pragmatici, la ricerca di perfezione spesso frenano chi dovrebbe essere “spiritualmente allenato” a vedere la sofferenza. Ed ecco, allora, che il soccorso arriva proprio da chi non condivide la fede, ma dimostra, coi fatti, un amore che non è schiavo del politically correct, ma che sa essere autentico, anche se questo significa correre il rischio di essere meno “simpatico” e “gradevole”. C’è un’autenticità che richiede ed esige di essere apprezzata, da chiunque provenga, perché è in grado di diffondere il profumo della sincerità, in un momento in cui pare essere poco di moda.
La sincerità, anche quando è grezza e ruvida come paglia che scortica la pelle, è pur sempre meglio della commiserazione: solo nella verità puoi assaporare l’amaro calice dell’amore che vince l’orgoglio. E, sulle prime, questa medicina è amara, ci fa girare la testa altrove, fare smorfie, rinnegare tutto, anche l’evidenza. Perché ci abita una massa d’orgoglio che pesa ben più dei chili che formano il nostro corpo. Abbiamo la nostra dignità, i nostri diritti, il nostro essere uomini e donne, e vogliamo strenuamente che ciò sia rispettato. Guai, se così non fosse! Saremmo pronti a difenderlo, con le unghie e coi denti, con la violenza, magari, se si facesse necessario.
Forse è l’impatto culturale attuale che fa la sua parte, ma mai, quanto in quest’epoca storica, abbiamo chiaro cosa ci spetti, fino a rivendicare come diritti questioni che in realtà sono solo pretese e non corrispondono a nulla che ci sia, in qualche modo, dovuto. Sono false aspettative.
Di fronte all’accusa di aver sbagliato, la prima mossa è sempre una difesa, una giustificazione. Quasi mai riusciamo a dire “Sì, ho fatto un errore, grazie per avermelo detto: questo mi aiuta a correggermi e non farlo più!”. Grazie? Il primo istinto non dico che sia omicida, ma fare del male fisico, magari sì. Ci viene un “rodimento” incredibile. Se poi è un amico, è pure peggio: «Ma non poteva star zitto?», ci domandiamo. «Bell’amico!» pensiamo. Quando va bene. Perché spesso, il passo successivo è il sospetto: «L’ho bell’è capito. Amico un corno, quello vuole fregarmi. Vuole mettere qualcun altro al mio posto. Vuole far sapere a tutti che non sono abbastanza bravo!».
Tanto può l’amor proprio di fronte all’incapacità di arrendersi all’evidenza. Sì, perché, un minimo di raziocinio suggerirebbe che, no, perdere l’effetto-sorpresa è la cosa più controproducente, quando stai cercando di “fare le scarpe” a qualcuno. E farglielo sapere è quanto di meno indicato ci possa essere. Se un amico ti fa notare un errore, è difficile che poi ti copra di ridicolo di fronte agli altri; chi vuol farlo, non ne parla prima con te: verrai piuttosto a sapere da altri che è stato lui a spargere certe voci! Ovviamente, parlando di “voci”, in questi casi, è sempre bene accertarci che queste voci siano vere e non sia una calunnia per cercare di infangare la reputazione del tuo amico, che, magari, è, al contrario, assolutamente ignaro delle maldicenze nei tuoi riguardi, o, comunque, non ne è l’artefice.
Tutto questo per dire che è umano e comprensibile un primo moto di rifiuto, nei confronti della verità scomoda, specie su noi stessi. La critica alla nostra persona è la più difficile da affrontare: spesso ce ne sentiamo aggrediti come da un’accusa infamante, e questo rischia di essere tanto più viscerale quanto più la verità ci arriva senza filtri, magari anche in modo un po’ ruvido. Cerchiamo la sincerità, ma ci fa male riceverla: buffo, no? Richiediamo, pretendiamo la chiarezza; ma quando riceviamo una valutazione netta, un riscontro specifico e dettagliato, tendiamo a lamentarci per la mancanza di tatto, ci focalizziamo sulla forma, senza chiederci se il contenuto sia onesto e ci aiuti a diventare migliori.
Ben inteso, se le parole di verità sono anche empatiche e seguono una modalità di comunicazione assertiva, è la psicologia stessa che ci conferma la loro tendenza ad essere più efficaci. Tuttavia, il semplice criterio di essere un parere veritiero, onesto e concepito in buona fede, è un servizio di prim’ordine alla nostra persone, che sarebbe bello iniziassimo a riconoscere, a prescindere da come si presenti “esteticamente”. Non tutti sono capaci di empatia, tatto, amorevolezza, delicatezza. Uno sforzo, certo, è possibile per ciascuno (anche se i risultati potrebbero non essere sempre idilliaci!).
Ho avuto la benedizione di sperimentare personalmente ciò. A volte erano amici, talvolta ancora meno: semplici conoscenti, che per un momento o per un periodo, hanno saputo accogliere il poco remunerativo ed in verità abbastanza ingrato ruolo di essere specchio alla mia anima. Di scandagliarne le meno nobili profondità, i rilievi più celate, gli angoli oscuri. Per riportarne a galla con precise e dettagliate analisi, i difetti; senza farmi mancare quell’assertività che li portava ad accompagnare ogni critica con la proposta di un mio pregio, di una mia qualità che poteva rappresentava il pungolo che mi garantiva di uscire fuori dall’impasse. Nella convinzione che nessun buio fosse così profondo da essere refrattario alla luce, ma anche che nessuna verità fosse troppo difficile da accettare, per il mio discernimento e la mia intelligenza, manifestando, in tal modo, profonda fiducia nei miei confronti.
Perché proprio qui risiede il passaggio più difficile da compiere.

Non è sempre facile accettarlo, ancora più difficile apprezzarlo. Ma, con il tempo, ho capito che le loro parole, le loro critiche motivate e precise mi erano più preziose di mille complimenti di dubbia verità, di tanti pareri intrisi di buon senso e “quieto vivere”.
Le prime erano capaci di scavare tra le mie ombre, mentre intravedevano spiragli di luce possibile, di cui mi indicavano il percorso; i secondi non mi mostravano nulla che io non conoscessi già, amplificando soltanto quel bagliore che non produce soltanto l’oro ma anche le gemme luminose di poco valore. Quell’illusione di bellezza non era nuova ai miei occhi ed era qualcosa di cui io potevo certamente rallegrarmi: ma era incompleta, perché ignara di quell’ombra che era presente e che contribuisce a dar forma al tutto.
Senza verità, non è possibile amore. L’amore vero si nutre di verità, perché non ha paura di affrontare il buio del dubbio e dell’incertezza, perché possiede quella speranza che nessun dubbio e nessuna incertezza potranno avere l’ultima parola. In ultima analisi, si tratta di fede: fiducia nel prossimo, in questo caso; specie quando non c’è la fede in Dio. Ma, in fondo, esprimere fiducia in una creatura, non è già, seppur indirettamente, un germe di fede in chi ne è Artefice?
L’amico che ci corregge, si sta fidando di noi: si fida che noi sopporteremo la sua correzione, che capiremo le sue intenzioni, nonostante ci sia il rischio concreto di essere fraintesi, di rimanerne offesi, di sentirsi traditi. Chi mette a nudo i nostri difetti ci ama talmente da mettere noi davanti al nostro rapporto: perché il rischio di troppa sincerità è di apparire arroganti, di urtare la sensibilità altrui e, in ultima istanza, di subire un rifiuto ed un allontanamento. Tutto ciò è in agguato ogni qualvolta decidiamo di percorrere la strada della verità, preferendola al “quieto vivere” di un volemose bene un po’ ipocrita e buonista, perché tale è la decisione di ignorare le differenze, per non infastidire il suscettibile ego altrui. Certo, naturalmente, maggiore è la permalosità, maggiore è il rischio. In realtà, però, dove più dove meno, credo che un po’ tutti siamo tendenzialmente propensi, quanto meno come prima risposta, a repellere con orrore qualunque parola rivolta a noi che metta in discussione il nostro essere, in quanto lo viviamo come un attacco personale, un tentativo di annichilimento.
Pur nella fatica che questo percorso comporta e richiede, fare luce su noi stessi e accogliere la verità su noi che è rivelata, è innanzitutto il primo passo indispensabile a un amore vero, soprattutto nei nostri confronti. Anche amarsi è una conquista, amarsi nel modo giusto: senza illusioni e senza nascondimento (sì, perché spesso cerchiamo di nascondere perfino a noi stessi quello che non ci piace di noi, del nostro carattere, delle nostre scelte). Amarsi con verità e nella verità, con piena consapevolezza di sé, dei propri limiti ma anche della propria forza: solo nella verità su di me, posso poi affrontare la sfida di amare chi non è me, tutti quelli che non sentono come me, non vivono i miei dubbi, i miei drammi, le mie angosce, i miei sogni, i miei desideri, i miei progetti, ma condividono con me la straordinaria avventura di essere uomini che camminano sulla faccia della Terra!
Di fronte a queste persone che rendono presente nella mia vita l’autenticità, pur non essendo un esempio di fede (almeno nella connotazione “tradizionale” del termine), confesso di vedere nascere dei dubbi rispetto al granitico “nulla salus extra ecclesiam” ( cioè non c’è salvezza al di fuori della Chiesa). I miei dubbi poggiano su due ragioni. La prima è l’onnipotenza di Dio: se Dio è onnipotente, sulla base di cosa dovrei limitarne l’azione? La giustizia, dice qualcuno, perché se la prescrizione è di seguire la Chiesa, ne consegue che non sia possibile “sgarrare”. In secondo luogo, proprio in virtù di una sincerità che richiama me alla coerenza, sono portata a pensare che, se io sono stata me stessa è forse maggiormente per merito di qualche “samaritano” che per merito di “leviti e sacerdoti”: per giustizia, quindi, a Dio, a cui non sfugge alcuna azione, immagino non sfuggirà neppure questo… e allora sono portata a pensare che, nella misericordia di Dio, c’è speranza per tutti e certezza per nessuno. Anzi, magari, chissà, vedremo Inferno, Paradiso e Purgatorio popolati in modo ben diverso da come la logica benpensante vorrebbe imporci di credere, nel momento in cui ignora che “i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri” (Is 55,8).


Per un approfondimento sulla Parabola:

Il Buon Samaritano

 

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