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«Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (At 21,13): questa è la risposta di Paolo, di fronte alla preoccupazione di chi gli vuole bene, dopo aver udito una nefasta profezia su di lui, che ne predice l’arresto. Mai, come in questi tempi, è possibile sentire queste parole estremamente attuali e toccanti. Siamo infatti – inutile, fuori luogo, controproducente ed assurdo negarlo – in uno tra i periodi di massima persecuzione del cristianesimo. In diversi luoghi, essa avviene con le armi della violenza, del sopruso, dell’ingiustizia, dell’inganno. In Occidente, essa avviene in modo talvolta più subdolo, ma non meno efficace: l’obiettivo è – in entrambi i casi e le modalità – quello di strappare Cristo ai Cristiani. Perché Satana, che ben conosce la Scrittura, sa bene che, finché il tralcio è legato alla vite, potremo portare frutto e, persino, molto frutto. Ma, senza Cristo “non possiamo fare nulla” (cfr. Gv 15,5).
Tuttavia, per chi sta intorno, è difficile accettare un simile destino. Io posso anche scegliere – liberamente – il martirio. Ma nessuno potrà mai essere contento che il proprio amico abbia fatto una tale scelta. C’è qualcosa di sovr-umano nell’accettare di poter essere fedeli fino alla morte con ignominia; a maggior ragione, nell’accettare quella di chi ci è caro, come attesta, del resto la conclusione del brano degli Atti, che, del resto, si apre a facili fraintendimenti:

E poiché non si lasciava persuadére, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore!». (At 21, 14)

Quali sono i fraintendimenti possibili? Questa frase, in determinati contesti, puzza di rassegnazione, a fronte dell’ineluttabilità di quanto accade o accadrà. Non è tanto questione di parole, quanto, piuttosto, di intenzione. Fare la volontà di Dio non equivale a chinare il capo, perché “tanto non posso ottenere nulla di diverso”. Questa è rassegnazione, non fede, che – addirittura – potrebbe rasentare un pessimismo esistenziale. La fede richiede al cristiano di accogliere – con fiducia – la volontà diun Padre buono che, al di là di quanto possiamo comprendere con i nostri strumenti umani, può vedere – oltre i nostri orizzonti – possibilità di bene, per noi e per gli altri, che noi non solo non siamo stati, ma non saremmo neppure in grado di immaginare.

Nell’epistola, il vaticinio si è compiuto. La lettera ai Filippesi è stata, infatti, probabilmente scritta dall’apostolo Paolo, durante il periodo della sua prigionia a Roma (61-63 d.C.): pur prigioniero e privato della libertà, riesce a provare gioia e gratitudine per il fatto che sia noto che le sue catene sono motivate dalla Parola, perché sono motivo di gloria per la Parola di Dio. Tutti sanno il motivo per cui è in carcere e ciò stesso diventa motivo di evangelizzazione.

Il brano evangelico che ci propone la Liturgia è, infine, tratto dal quindicesimo capitolo del Vangelo giovanneo. Non è un punto qualsiasi. Siamo ormai in dirittura d’arrivo. Si avvicina l’Ultima Cena e Gesù è pienamente consapevole che la clessidra del Suo tempo tra noi è ormai agli sgoccioli. Manca poco, e in quel poco deve condensare tutto quello che manca, deve incidere nel cuore dei discepoli le parole più importanti, affinché possano essere loro ricordate dallo Spirito Santo, dopo la Resurrezione. Notiamo, quindi, che in ogni verbo, è presente un’attenzione ed una cura che sono una dimostrazione d’affetto.
«Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Rimanere, restare: è un verbo di fatica, perché richiede la pazienza militare della veglia, dell’attesa: anche quando è notte, c’è nebbia, e il freddo e l’umidità intridono le ossa, oppure, al contrario, il sole batte come un martello sulla testa e avresti voglia di essere in qualunque luogo, tranne quello in cui sei. Rimanere richiama la perseveranza di chi non si stanca alla prima difficoltà, quando sembra che il guasto della novità sia svanito. «Rimanete nel mio amore»: in grammatica è un imperativo, eppure porta con sé tutto il sapore d’una supplica. Sì, il Re dei Re ci supplica e ne abbiamo certezza con la spiegazione che segue: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 10). Ecco perché quell’imperativo grammaticale, in realtà, nasconde una supplica: è intriso di quell’amore che vede, vuole e ricerca il bene altrui e prega perché, nella nostra libertà, abbiamo il coraggio di sintonizzare il nostro sguardo con il Suo. Perché è l’unico modo per sperimentare la gioia, quella vera. Che riempie il cuore e non solo gli attimi di un fugace divertimento passeggero.
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). In questa frase, si condensa il Cristo, tutto intero. Non si tratta solo della Croce, che costituisce, piuttosto l’apice dello stile che contraddistingue la venuta di Cristo, sin dall’inizio. Donarsi totalmente, dall’inizio alla fine, senza trattenere nulla per sé, adempiendo totalmente la Volontà del Padre.

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). Gesù non rinuncia all’immagine del servo, per parlare della fedeltà (come, ad esempio, nella parabola dei talenti – Mt 25, 14-30). Tuttavia, nel Vangelo è, per la prima volta, approfondita una visione nuova sul fedele. Non si tratta di un servizio reso. Si tratta di un legame d’amicizia. Il che cambia enormemente la prospettiva. Perché scompare la dinamica commerciale e s’introduce la prospettiva della fiducia. Sì, certo, c’è una fedeltà richiesta anche nel lavoro dei salariati: è una fedeltà sostanzialmente a senso unico, però; al salariato si richiede di svolgere un determinato compito e non è tenuto a conoscerne i dettagli, né le motivazioni, né gli scopi ultimi. È chiamato ad un “dovere-per-il-dovere”. L’amico no. Nell’amicizia, avviene una scelta, reciproca. La fiducia costruisce un legame per cui non basta dire “Fai questo!” perché sia fatto. L’amico vuole conoscere quale sia la direzione da prendere, l’amico domanda “perché”, richiede spiegazioni. Non è mancanza di fiducia, è richiesta di fiducia reciproca. Il servo non possiede possibilità di scelta, l’amico sì. Il servo è costretto dal bisogno a rimanere. L’amico sceglie di restare. È la libertà a dirigere la relazione. Libero sempre di andarsene, sceglie pur sempre di restare, nonostante tutto.
Anche quando non capiscono, non comprendono, non approvano, persino quando osteggiano, correggono con stima e benevolenza e stimolano a fare del proprio meglio.
Perché gli amici restano.
È questo l’amore che siamo chiamati a scegliere di coltivare: quello che viaggia nella verità, ma non rinuncia a quell’assertività che consente sempre di vedere nell’altro un bene possibile, anche quando ha compiuto il male, anche quando non approvo le sue scelte. Perché questo è l’amore di Dio: capace di attendere al varco la nostra possibilità di diventare migliori, persino quando noi non ci stiamo credendo più.

Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica del Tempo di Pasqua, anno C – At 21,8b-14; Sal 15; Fil 1,8-14; Gv 15,9-17


Fonte: Don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: Pixabay

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