stelleTra poco, la Chiesa intera celebra la festa di Ognissanti. È un modo con il quale la liturgia ci ricorda, annualmente, che la santità è una chiamata universale, sempre possibile, rivolta a tutti e a ciascuno, nei sentieri e nei luoghi di ogni giorno. A qualunque uomo e donna di buona volontà disposto a spendere del proprio affinché la propria vita sia realizzata e goda di quella pienezza che Dio aveva pensato dall’inizio dei tempi.
Dio è qui: vicino, all’incrocio dei giorni, sul sentiero del nostro cammino quotidiano; tra fatiche, smarrimenti, ripartenze e volontà di essere migliori! Nessun luogo è lontano, nessun compito è “troppo poco”, nessun dolore troppo grande, nessuna gioia troppo umana perché non possano essere abitate dalla Sua presenza.
È curioso inoltre osservare come la liturgia ci tiri un brutto scherzo. Passi per i santi, in fondo possono anche essere simpatici, ma la Commemorazione dei Defunti… proprio no! Quanto è impegnativo pensare alla morte, per noi che vorremmo sempre essere belli, giovani, scattanti e attraenti fino alla fine dei nostri giorni. Eppure, il caso non esiste. C’è un senso profondo, in questa vicinanza cronologica: i santi non sono e non saranno mai (lo ammetto: non ne ho la certezza assoluta, ma lo affermo almeno come augurio plausibile e ben motivato!) solo e soltanto quelli che abitano il calendario. Ognuno credo possa dire di avere avuto la benedizione di avere incontrato delle “stelle” sul proprio cammino, che hanno illuminato la strada avanti a lui, per vedere in modo più chiaro dove avanzare i piedi, specie quando l’andare si fa più impegnativo e la visuale risulta confusa e offuscata. Quanti nonni, educatori, amici ci hanno preceduti nella casa del Padre, “come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte” (Purg. XXII): questa è l’utilità che rappresentano le persone che ci hanno preceduto, aiutandoci nel nostro cammino. Ecco perché ho motivo di credere che, anche nella schiera dei nostri cari defunti, a prescindere dall’iter di canonizzazione, siano presenti dei santi. Magari, non hanno fatto nulla di miracoloso, a parte ricercare il miracolo quotidiano di aderire a quell’immagine di Dio, di cui troppo spesso e volentieri ci rendiamo “bruttissima copia”.

Spesso, alla domanda su “come comportarsi bene” («Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?»), siamo tentati di indirizzare ai Dieci Comandamenti. Non che sia sbagliato, ma alle volte la prospettiva rischia di essere pessima: da un lato è come mostrare solo uno scheletro, una radiografia di cristianesimo, dall’altro il rischio è quello di leggerli alla lettera, e non secondo lo spirito di quanto dicono, rinunciando a lasciarsi mettere in discussione, adagiandosi sulla suoperficialità del “mica ho ucciso nessuno, che avrò mai fatto di male?”. Se il primo pericolo è un disturbo soprattutto rispetto a chi non crede (dà un’immagine distorta e incompleta della vita di fede), il secondo atteggiamento è, invece, – in un certo senso – masochista: spinge ad indulgere su di sé, puntando al minimo, azzerando l’ambizione e adeguando le aspettative su noi stessi alla parte deteriore del mondo che abbiamo avuto modo di incontrare (anche in questo caso, si tratta di vivere una parzialità della realtà, rifiutandosi di vedere il bello che la vita e gli uomini possono regalarci!).
Ammetto di aver sempre fatto fatica a tenere a mente i dieci comandamenti, dai tempi della Prima Confessione. Ho trovato molto più agevole pensare al comportamento di Cristo. Forse sembra assurdo o – addirittura – troppo ambizioso, ma pensare ai dieci comandamenti rischia di promuovere una troppo facile auto – assoluzione e, quindi, frenare il proprio personale percorso di crescita: quando ci accorgiamo di essere immuni dai peccati esteriormente, può insomma sembrarci di essere perfetti. Questa forma di superbia è però il primo ostacolo nel cammino di miglioramento di se stessi, com’è intuibile: se mi sento già arrivato, non penso neppure alla possibilità di migliorarmi!
Credo tuttavia che sia il caso di scoprire un possibile approccio diverso, a partire dall’assertività. Non si tratta di un concetto religioso, ma è usato soprattutto nelle situazioni sociali e imprenditoriali: ha insomma un aspetto soprattutto pratico; forse, però, appunto per questo, potrebbe essere un aiuto a rendere concreta la spiritualità. Il punto cardine è una visione, per così dire, ottimista: l’assertività promuove sempre e comunque, valorizza il punto bianco anche su un intero foglio nero. Tuttavia, è l’arte di esprimersi in modo chiaro ed efficace, dunque alla promozione di ciò che è buono seguirà prontamente il riconoscimento dell’errore, nella sua specificità. E qui la parola – chiave è la specificità: solo se si riesce ad essere specifici, è possibile correggere gli errori. Propri e altrui.
Le parole sono importanti, a volte importantissime. Pensare al raggiungimento della vita eterna come a una serie di scelte negative da compiere sembra quasi presentare una sorta di corsa ad ostacoli per il raggiungimento di tale obiettivo. Per quanto l’obiettivo dovrebbe in sé essere allettante in quanto di valore, la presenza di tutti questi ostacoli rischia di scoraggiare chi pure avesse desiderio di intraprednerla.
Per questo motivo, ritengo sia fondamentale sottolineare chi siano i santi. Non sono persone che hanno detto “no” a una lista di cose negative. Per quanto possa anche essere così, la prospettiva è sbagliata. Si tratta, piuttosto, di persone che hanno deciso di seguire la strada di Dio, dopo averlo incontrato, perché hanno capito che era Lui la sorgente della gioia e dell’entusiasmo, della voglia di vivere e del coraggio di affrontare ogni giorno nuove sfide, anche quando le precedenti si sono rivelate un inenarrabile fallimento. Sono uomini e donne di speranza, che hanno saputo mantenere il sorriso. Forse, volendo trovare una caratteristica, è questa l’unica possibile.
Sono infatti moltissime le vocazioni di santità: quella familiare, come Santa Gianna Beretta Molla; quella della predicazione, come San Francesco d’Assisi; quella educativa come S. Giovanni Bosco o San Filippo Neri; quella medica, come san Riccardo Pampuri, san Giuseppe Moscati o san Giovanni di Dio; quella ascetica, come santa Teresa di Lisieux o santa Chiara. Un arcobaleno di diversità, perché il volto di Dio è troppo pieno di colori per fermarsi al bianco e nero.
Lasciando un’unica certezza: gli amici di Dio non conoscono la tristezza perché contemplano dinanzi a sé germogli di speranza, che spargono intorno semi di serenità, perché la compagnia dei santi non è mai stata grigia e cupa!

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