Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pane1C’è un albergo lungo la statale che da Gerusalemme s’addentra verso Emmaus: a chi di noi non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada una sera che tutto era perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso: il mondo, i filosofi, gli scienziati. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Noi seguivamo una strada e Lui ci veniva a lato. Eravamo soli, ma non eravamo soli. Era sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità di una sala dove la fiamma di un caminetto fa tremolare le ombre. Quando furono presso il villaggio dov’erano indirizzati, egli fece finta di voler andare più lontano. Ma essi gli fecero forza dicendo: “rimani con noi, perché si fa tardi e il giorno declina”. Entrato nel villaggio, ruppe il pane e lo consegnò loro. Allora i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Ma egli sparì da loro e li lasciò avvolti in una profonda nostalgia: “non bruciava il nostro cuore mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?” (liturgia della III^ domenica di Pasqua)
Pensa che capolavoro di bellezza, di nostalgia, di eternità: l’hanno riconosciuto nello spezzare il pane. Solo in quel gesto hanno visto riflessi i lineamenti del loro Gesù. Nemmeno Maria Maddalena, la donna che più di tutte ha inseguito quei passi zingari, l’aveva riconosciuto. Fuori dal sepolcro piange e lo confonde con il custode del giardino. Solo quando Gesù le dice: “Maria” le si aprono gli occhi e riconosce il suo Messia. E noi pure qualche volta l’abbiamo riconosciuto? Perché non vogliamo confessarlo? Ebbene, l’abbiamo riconosciuto nei suoi sacerdoti, assai spesso. Diciamo tanto male dei sacerdoti! Eppure al cristiano che ha l’abitudine (forse cattiva) di inginocchiarsi a caso nei confessionali, è accaduto più d’una volta di udire la parola inaspettata, folgorante, di ricevere all’improvviso da uno sconosciuto dolce e umile di cuore, prigioniero di quella bara ingraticolata, il dono di una carezza profumata di cielo, di una consolazione che non recava firma d’uomo. Cosa importano i loro tradimenti, le loro miserie, le loro cadute? “La grande gloria della Chiesa – scrisse magnificamente Jacques Maritain – è d’esser santa nonostante i membri peccatori”. Sino alla fine del mondo, sino a quando le mani di alcuni uomini eletti innalzeranno l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Questi sono gli uomini che ha creato il Giovedì Santo, questi sono i primi preti che mai come oggi appaiono una sorprendente stonatura. Non più privilegi umani: la castità, la solitudine, più spesso l’odio, lo scherno e, soprattutto, l’indifferenza di una società che sembra non aver più posto per essi: ecco la bella parte che ci siamo scelti. Ma perché c’è un sogno: quello di sentir risuonare nel cuore della gente l’esclamazione divenuta celebre nella taverna di Emmaus: “non bruciava il nostro cuore mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?”

«La secolarizzazione, che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell’umanità senza riferimento alla Trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui […]
La “morte di Dio” annunciata, nei decenni passati, da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. In questo contesto culturale, c’è il rischio di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, caratterizzati talvolta da forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo» (Cfr «Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura», 8 marzo 2008)

Operai di Dio con un arnese tra le mani: la Scrittura. Quest’oceano di poesia e d’eternità che l’uomo è disposto a perdere pur di continuare a dormire. Oggi c’è crisi di estasi, è in calo il fattore sorpresa, non ci soprendiamo più di nulla. Dovremmo essere meravigliati da Dio. Cristo rivolge anche a noi oggi lo stesso rimprovero indirizzato un giorno ai sadducei: “voi vi ingannate non conoscendo le Scritture” (Mt 22,29). E, allora, basta il modesto slogan martellato da un testimone di Geova a mettere in difficoltà il cattolico che forse ha una conoscenza ancor più superficiale di quella del suo interlocutore. Ma, soprattutto, il cristiano che ignora le Scritture resta privo di un alimento necessario e stupendo “più dolce del miele e di un favo stillante” (Sal 19,11). Nemmeno i discepoli di Emmaus son riusciti a riconoscere che quel forestiero nascondeva le sembianze di Gesù di Nazareth perché non avevano capito ciò che stava scritto nelle Scritture: “allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45). Il Signore ci ha messo sulla bocca parole roventi, ma noi spesso le annacquiamo col nostro buon senso. Ci ha costituito sentinelle del mattino, annunciatori, cioè, di cieli nuovi e terre nuove che irrompono. E invece annunciamo cose scontate, che non danno i brividi, che non provocano rinnovamento. E’ necessario ritrovare la forza provocatoria del Vangelo. Se noi credenti non teniamo alte queste attese, queste follie, queste utopie del Vangelo e della Bibbia, che ci stiamo a fare nel grembo della storia?
Non sono sogni irraggiungibili, sono semplicemente sogni diurni. Quelli che, fatti all’alba, preludono sempre alla realizzazione. Perchè sogni di Lui.

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