Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

carcere cella Fg

Come pentole in piena fase di ebollizione: corpi decapitati, squartati, con il cuore strappato dal corpo. E’ il sistema-carcere che in questi giorni sta tenendo sotto scacco il Brasile: sessanta morti nel carcere “Anisio Jobim” di Manaus, ieri trentatré detenuti uccisi nel carcere “Agricola de Monte Cristo” di Boa Vista, il maggior istituto di pena del Brasile settentrionale. Il Brasile è un mondo lontano, il carcere è un orizzonte che vogliamo credere non ci appartenga, i numeri abbinati alle stragi hanno perso da tempo il potere di trafiggere l’immaginazione collettiva, di accendere una compassione cognitiva che vada un centimetro oltre le frasi-fatte, che scavi in profondità dentro l’eco di un accadimento. Del male.
Il carcere è una non-zona: geograficamente esiste, ma è quello spazio che si vorrebbe convincersi non esistesse, pur nella certezza che chi-sbaglia-paghi. A sbagliare, solitamente, sono sempre gli altri: non esiste che lo si calcoli come possibilità nella propria esistenza. Sopravvive, ingrassando a dismisura, con la stessa cibarie della quale si nutre Satana: quest’ultimo non ha mai guadagnato cos’ tanti adepti, non ha mai ingurgitato tanto spazio, come dal giorno in cui ha messo in giro la voce che è morto, scomparso. Il carcere, per natura, non è il regno di Satana: quando si cade dentro i tentacoli di ferro e cemento, il Male ha già fatto la sua parte. Ha già messo in scena la sua fandonia: quella, al cospetto del bene, di promettere molto-molto meno. In tempi molto più rapidi, però: è il suo solito trucco per abbindolare le menti, i cuori, sequestrare l’anima. Entrare in carcere è contemplare un mondo che va in frantumi, è convivere con notti di eterno abbandono: «Quella notte, dopo lo spegnimento delle luci, restai disteso sulla mia branda, ascoltando i rumori della notte, il cigolio delle molle, i sussurri senza parole, le risa soffocate, pensando a quei due chicanos morti» (E. Burke, Educazione di una canaglia). E’ in quest’attimo che il carcere inizia a fare paura, a far-bollire il clima fino a farlo diventare una gigantesca caffettiera fumante. E’ il momento preciso nel quale la società perde un detenuto, e viceversa: l’attimo in cui tutta la sofferenza – causata, subita, covata – diventa rabbia. Sono attimi nei quali il carcere fa letteralmente paura: contemplare la violenza-vestita-a-festa è credere che il Male, in certe occasioni, ha anche lui la sua epifania. Grandiosa.
Il carcere è stato ideato da gente che non è mai stata in carcere: nessun carcere, da solo, riesce a salvare. Nemmeno ad interessare: lo può essere nella misura in cui genera indotti economici. Tra i molti che tentano di organizzare il bene – “Non basta il bene: il bene sia fatto bene” osava Teresa di Calcutta -, c’è anche chi i poveri si diverte a farli cadere, farli sentire una nullità e farsi pagare il recupero. E’ in questi attimi, che sovente la rabbia esplode: pur colpevoli, non si accetta il sopruso, il governo della paura, il muto dolore. Basta poco, in questi attimi, a far esplodere tutto. La paura può rendere pericoloso il più codardo: nessuno ha più fretta di un tossico a due passi dal buco. Il Papa, quando parla delle carceri, più che apprezzarlo lo si sopporta: “Dice tante cose di quelle cose belle, che questa gliela perdoniamo” sembra il ragionare di una certa società, di una certa chiesa. Invece, povero-Cristo in terra, il Papa imbraccia l’unica parola che possa fare di un carcere un luogo-di-restauro, anche di riparazione: occorre “reinserzione” (il suo neologismo per dire “reinserimento”). Re-inserire è l’esatto opposto di ri-gettare, di escludere: aiutare a trovare un posto a chi ha perduto il suo posto, rimettere nel binario il treno che ha deragliato, prestare la voce a chi l’ha perduta. Reinserire è del detenuto, lo è della società: ritrovare il pezzo che manca, l’uomo perduto. In cosa consiste l’umanesimo, che è il dono del Natale, se non nel saper fare spazio nei propri sogni a chi di sogni non ne ha più? In caso contrario, è rabbia-cruda: sangue, vendetta. Ieri in Brasile, domattina qui.

(da Il Sussidiario, 7 gennaio 2016)

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