Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

donabbondioLa cattura di un assassino non cancella il dolore di una perdita. Ma se non altro porta avanti e alimenta il senso di quella giustizia che non viene meno nemmeno applicando il principio della misericordia. Le tracce e la memoria di don Ruggero rimarranno là, dove la Provvidenza l’aveva sospinto, ai margini di quella foresta dove con il suo piglio combattivo e tenero testimoniava la gioia del suo sacerdozio. Ma è pur vero – ce lo ricordano i ragazzi con i loro graffitti stampati sugli zaini – che nessuno muore se vive nel ricordo di chi rimane. E allora la sua storia colora di speranza e di credibilità il presente di una Chiesa impacciata nel difendere ad oltranza cadute di stile e offese pesanti inflitte nel suo lento percorrere e abitare le strade degli uomini.
Un missionario ucciso – sia esso vestito dei sacri paramenti sia esso rivestito della sua umanità laicale – assicura il fatto serio del cristianesimo: oggi un prete vero non può brillare perchè in un mondo in cui vige il principio della mediocrità, ricercare ed inseguire quella fedeltà che chiede d’assumersi il rischio di una scelta è considerato sempre più un pagano pavoneggiarsi. Anche in quelle zone – ostinatamente definite sacre – dove il salire dell’incenso dovrebbe aiutare ad allenare più all’animo del cardinale Borromeo che al tremolio pavido di don Abbondio il quale, bontà sua, imparò a sue spese e con non poche figure meschine (tutte meritate) che sottrarsi alla propria missione non procura salvezza, mentre l’assumerla è il solo azzardo che vale la pena di correre. La Sacra Scrittura racconta il viaggio di un popolo che ha sperimentato la fede difficile: una fede fatta di ferite, di apparenti delusioni, di colossali incomprensioni. Ma le ferite, millenni dopo, sono rimaste la memoria viva di un percorso: perchè nessuna lotta permette ad un combattente di uscirne indenne, ma gli lascia in eredità delle tracce che racconteranno la sua storia ai posteri.
Il periodo che sta attraversando la Chiesa – subbissata da scandali cercati e da occasioni di purificazione – è tutt’ora bagnato dal sangue del martirio: è per questo che le nefandezze e le mal giustificate debolezze umane recano offesa non solo al Dio dell’Eterno ma anche alla spassionata testimonianza di chi si gioca la vita pur di non tacere la gioia del cristianesimo. Don Ruggero – e tutti i suoi fratelli che nel cuore s’arrischiano per Cristo – rimane per la terra di Padova la provocazione bella alla chiamata alla santità: da grande condottiero delle missioni diocesane predicava la “teologia del grembiule”. Dismesse le stellette d’ordinanza s’è rivestito del suo grembiule e ha inseguito i profumi di una coerenza che l’ha fatto amare e ben volere. A tutti fa piacere, seppur morto,di avere un corpo su cui versare le lacrime del Venerdì Santo. Forse un giorno sarà commovente che un prete ammazzato per Cristo venga lasciato laddove l’uomo ha tentato di fermarlo. Come un alpinista che, sorpreso dall’inedito della montagna, chiede anticipatamente d’essere lasciato in caso di morte lassù dove lei l’ha chiamato. In fin dei conti ad accomunarli c’è un unico sogno. Che diventa pure un bisogno: mettere ogni tanto fuori la testa, come talpe a primavera, per guardare il mondo. E poi, delusi dalla mediocrità, tentare salite inedite per non addormentarsi nel monologo di parole e gesti che non attecchiscono più.
Forse per questo le loro ferite diventano in un secondo momento delle feritoie: dove la luce che passa racconta che l’unica necessità dell’esistenza è quella di abbandonare la sicurezza della schiavitù per avventurarci nel rischio della libertà.

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