Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

papa_giovanni_paolo_ii.jpgL’ultima stagione del Pontificato, quella che va dal Grande Giubileo alla sua morte, può essere sintetizzata dal motto: “Servire la Chiesa quanto a lungo Egli (Cristo) vorrà“, che in questa forma Giovanni Paolo II aveva pronunciato la prima volta al compimento del 75° anno e che ha variamente ripetuto da allora, ad attestare l’impegno a spendersi totalmente, fino alla fine.
La salute del Papa, negli ultimi anni, è stata una lunga lista di doglianze. “Vi saluta il Papa deficiente, ma non decaduto“, scherzava Giovanni Paolo II nel novembre 1993, di ritorno dal Gemelli dove era stato ricoverato dopo una lussazione alla spalla. Oltre all’età che avanzava, l’origine di tanti problemi successivi fu l’attentato che il 13 maggio di 24 anni fa lo ferì gravemente all’addome, oltre che ad una mano, lasciandolo quasi dissanguato. Lo ha salvato un’operazione al policlinico romano, cui n’è seguita un’altra minore il 5 agosto. Sono stati ben 164, mediamente sei per ciascun anno di pontificato, i giorni complessivi trascorsi da Giovanni Paolo II nel policlinico romano Agostino Gemelli (compreso uno nell’ospedale di Albano per un controllo), a partire da quel drammatico 13 maggio. Si è trattato di una sequenza di ben otto periodi prolungati di degenza, che hanno persino spinto il pontefice ad una riflessione umoristica, pronunciata il 13 ottobre 1996: “Saluto cordialmente tutti i presenti raccolti in questo, direi, Vaticano numero 3. Perché il Vaticano numero 1 è piazza San Pietro, il numero 2 è Castelgandolfo, il numero 3 è diventato il policlinico Gemelli”. Nell’estate 1992, infatti, è sotto i ferri di nuovo, questa volta per un tumore al colon, poi rivelatosi benigno. Un altro brutto colpo per il suo apparato digerente arriva il 6 ottobre 1996, quando gli viene tolta l’appendice. Ma i guai non finiscono lì. L’uomo, più debole, scivola nel bagno il 28 ottobre 1994 e il giorno dopo viene operato per una frattura al femore. Da lì in poi rinuncerà allo sci, sua gran passione, e avrà problemi all’anca. È in quello stesso anno che appare un tremore alla sua mano sinistra, ma solo a settembre del 1997, durante un viaggio in Ungheria, il portavoce nominerà la patologia: “malattia neurologica, di tipo parkinsoniano”. Un morbo che avanza vistosamente negli anni successivi. Nell’aprile 2002, poi, al termine dei riti della Settimana Santa, il Papa è stremato: forti dolori ad un ginocchio consigliano il ricovero in una clinica, dove il Pontefice viene visitato da un chirurgo ortopedico. Giovanni Paolo II soffre, infatti, di un’artrosi al ginocchio destro. La cura prevede l’uso di farmaci antinfiammatori, con ricorso anche ad iniezioni di cortisone.  Una crisi respiratoria lo colpisce il primo giorno di febbraio di quest’anno costringendo i medici alla fine del mese, durante il suo secondo ricovero al Gemelli nel giro di pochi giorni, ad un’ennesima operazione, quella di tracheotomia elettiva, per consentirgli di poter respirare senza gravi difficoltà.
Talvolta si è sentito dire che l’immagine di un pontefice “vecchio e tremante” non nobilita la chiesa che pretende di rappresentare. Si è fatto a gara per mostrare insopportabili dettagli che i media, spesso cinici, ritrasmettevano volentieri; le marionette di Guignol lo ridicolizzavano sarcasticamente e le telecamere inquadravano in primo piano le mani che tremavano durante l’elevazione, un filo di bava che colava dalle labbra, il volto contratto dal morbo di Parkinson. Immagini diffuse nel mondo intero, che tuttavia hanno giocato contro quelli che le trasmettevano, poiché spesso la compassione e la simpatia sono prevalse in coloro che le guardavano.
Giovanni Paolo II ha voluto terminare la sua sofferenza, compierla, laddove la sua vocazione lo aveva insediato, al soglio di Pietro. Papa eccezionale ha voluto applicare alla lettera il disegno di Dio, aggrappandosi giorno dopo giorno alla pastorale d’argento che ha sempre tenuto in mano come un pellegrino tiene il suo bastone. Più passava il tempo e sprofondava nella malattia, più si dava a Dio in maniera mistica, al modo di alcuni dei molti santi che ha canonizzato. Uno degli ultimi esempi, quello di madre Teresa, consacrata ai lebbrosi e ai malati di AIDS nel sanatorio di Calcutta, gli aveva svelato il senso di ciò che doveva essere un pontificato: un dono di sé a Dio, un dialogo costante con Lui.
La grandezza del cristianesimo sta appunto nel mostrare il riverito Dio morto sulla croce, annientato dal dolore, che offre al mondo le proprie piaghe e la propria morte. Cosa bisogna aspettarsi da chi serve questa religione al più alto livello, se non quest’offerta di sé? L’impudenza di chi richiedeva le sue dimissioni, la sua cancellazione dal campo del visibile, il suo pensionamento in qualche monastero polacco o romano, in breve la sua dipartita dal “teatro del mondo”, con il pretesto che non sarebbe stato più sufficientemente televisivo o mediatico, ha colpito per la sua crudeltà. A tutti costoro i quali perfidamente gli consigliavano di ritirarsi, argomentando che la Chiesa doveva essere dotata di un capo in buona salute, Giovanni Paolo II ha risposto senza esitare: “Gesù è forse sceso dalla croce?“. Cosa rispondere a questa stupefacente evidenza?

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Così Giovanni Paolo, il papa giunto dal freddo, il papa operaio, il papa poeta e filosofo, il papa ribelle e nostalgico d’una terra e di un passato dimenticati, ha continuato a rimanere tra noi, tra quel popolo di Dio, che lo ha amato “sullo stretto marciapiede della terra“, così come lui stesso ha definito il corso limitato della vita, e vi è rimasto fino alla fine sopraggiunta sabato 2 aprile 2005 alle 21.37.
Ha dato l’annuncio ufficiale in Piazza San Pietro, durante la recita del Rosario, il sostituto alla Segreteria di Stato mons. Leonardo Sandri. La voce che il Papa stesse per entrare in agonia era circolata nel pomeriggio del 31 marzo. A sera, il portavoce vaticano confermava, e la mattina successiva precisava, la natura dell’ulteriore crisi dovuta ad un’infezione alle vie urinarie con shock settico e collasso cardiocircolatorio. La sera di venerdì 1° aprile, durante la concelebrazione in Laterano, il cardinale Camillo Ruini aveva parlato della fede del Papa agonizzante: “Una fede così forte e piena, un’esperienza di Dio così intensamente vissuta, che egli, in queste ore di sofferenza, come prima in tutto il suo instancabile ministero, già vede e già tocca il Signore, già è unito al nostro unico Salvatore“.
I grandi del mondo si sono inchinati per dare l’addio a Karol Wojtyla. Ai suoi funerali, presieduti dal cardinale Ratzinger in Piazza San Pietro venerdì 8 aprile, sono convenuti 2 milioni di persone da ogni angolo della Terra, 200 delegazioni diplomatiche di tutte le lingue e di tutti i credo religiosi: tra loro 46 capi di Stato e otto vice-capi, 17 premier, 3 principi ereditari, 13 responsabili di organizzazioni come l’ONU. Resta di quella messa solenne anche un flash straordinario. La piccola schiera di patriarchi orientali che sul finire del rito si sono accostati alla bara e hanno cantato gli inni struggenti della tradizione bizantina. E’ stata una messa come l’avrebbe voluta Wojtyla. Protesa tra Oriente ed Occidente. È venuto il primate anglicano Williams, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e tanti capi di chiese cristiane e di altre religioni. Giovanni Paolo II ha così chiuso in fratellanza la sua lunga corsa terrena, pronto a varcare la soglia dell’eternità.

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