carcere

Come le briciole di pane per Pollicino: per tanti di loro – malfattori e non, magari entrambi con decenni di galera da scontare sulle spalle – la famiglia è rimasta l’ultima segnaletica che un giorno li potrà forse ricondurre nella città dove vivono gli uomini liberi. Sono famiglie spezzate dalla condanna inflitta dalla legge: una parte di loro è rimasta a vivere nella città, l’altra parte – quella che la giustizia ha dichiarato colpevole – è costretta a vivere dentro le mura di un carcere. L’unico luogo di ricomposizione dei frammenti familiari sono le sale dei colloqui dove, quando le circostanze lo permettono, si tenta in tutti i modi di salvare una storia d’amore a forte rischio di estinzione. Lo scenario è raccapricciante per coloro che si sforzano di cercare tracce d’umanità nel regno della disumanizzazione: donne con i bambini in braccio, le borse profumate di biancheria e di piccole frivolezze, le occhiaie stanche per il lungo viaggio e la voce sommessa delle confidenze, qualche lineamento di vergogna nel volto e quel senso di paziente attesa del quale sono capaci solo le donne. Sotto la canicola d’agosto e il gelo dell’inverno, la pioggia d’aprile e la malinconia d’autunno: di settimana in settimana immensi “viaggi della speranza” per cercare di non sfilacciare la trama di una storia d’amore che la libertà ha tremendamente ingarbugliato. Loro – gli uomini – sono dentro: quell’esile filo chiamato “famiglia” per loro trattiene il profumo dell’aria e della disperazione, è fonte d’insonnia e di tensione, motivo d’ansia e di speranza. Dopo anni di galera capita che nelle lunghe notti insonni compaiano quadretti di vita vissuta, scene d’intimità umana, l’eco di voci familiari al cuore: voci di bambini nati quando il padre era già dentro, passi di figli cresciuti senza padri, storie di ragazzi diventati uomini frequentando il padre solamente per lettera. Storie di quotidiana ordinarietà dietro le sbarre di una galera.
La Costituzione Italiana decanta la funzione rieducativa della pena: basterebbe varcare le porte di un carcere per capire l’illogicità di questo buon proposito. Per giustificarlo occorrerebbe spiegare come si possa rieducare una persona privandola dell’affetto e dell’intimità, restringendo i contatti con la famiglia e riducendo al lumicino quella sensazione d’essere rimasti, almeno per qualcuno, ancora importanti: qualcuno le potrebbe chiamare ragioni di vita. Togli loro la famiglia, perdono il respiro e muoiono: di disperazione, di solitudine, di ansia. Dentro il silenzio eremitico e intriso di malinconia delle celle, tutto parla della famiglia: c’è chi appende le foto dei bambini accanto al cuscino, chi tiene la foto della moglie perennemente in tasca, chi custodisce geloso il fermaglio lasciato da lei, chi ama mostrare le pagelle dei figli arrivate per posta, chi rinuncia alla televisione per dare risposta a quella lettera. Chi – magari condannato ad una pena che non finirà mai, l’ergastolo – tenta il tutto per tutto: con i programmi del computer inserisce il suo volto nella foto arrivatale da casa, e si sente ancora parte di una storia d’amore. Certe sere anche l’illusione serve pur di sentir parlare d’amore: qualora qualcuno gliela togliesse, altro non rimarrebbe che quel lenzuolo a forma di spago.
Il mondo – quello cresciuto alla scuola degli slogan di La vita in diretta di RaiUno – parla con troppa faciloneria di ergastoli e condanne a morte, di pene troppo brevi e sentenze irriverenti: basterebbe a volte pensare che una condanna non è solo la condanna di un singolo ma la condanna di un’intera famiglia per avvertire un sussulto di dubbio nell’ostentata certezza della pena. E’ giusto e doveroso che chi sbaglia paghi e che venga isolato dal mondo che ha tradito; ma il posto nel quale isolarlo non può essere il carcere com’è concepito adesso. Perchè, oltre ad essere una tomba per chi ha sbagliato, è una tomba per tutte le loro famiglie. Che non sono più famiglie ma semplicemente briciole di famiglie alle quali vengono proibite quelle piccole cose che rendono una vita qualsiasi una splendida storia d’amore: basterebbe poco per rendere il carcere più umano ed educativo.
Li vedi uscire con gli occhi lucidi e le mani che tremano, qualcuno che s’è aggrappato al padre non lo vuole più mollare: chissà quante storie avrebbe ancora da raccontare quel bambino al suo papà. La sua mamma, invece, vorrebbe condividere dubbi e preoccupazioni, renderlo partecipe delle scelte dei figli e chiedere un parere: o, più semplicemente, farlo sentire ancora parte viva di una famiglia che cresce. Invece l’appuntamento è da rinviare a sorte migliore. Salgono in macchina e si voltano per l’ultima volta: dietro le sbarre di ferro per loro non ci sono lupi o animali ma c’è ancora un uomo che chiamano marito e papà: nessuna colpa potrà far dimenticare loro come si pronunciano e s’abbinano quelle poco sillabe. Per tanti di loro, appena rincasati, rimarrà quel senso di vergogna sul volto: per il mondo dei giusti loro rimarranno sempre la moglie del brigante, il figlio dell’assassino, la madre dell’omicida. Eppure loro sono davvero innocenti, di quell’innocenza delicata che impedirà di reagire ma, condividendo la tristezza, diverrà motivo per tenere vivo il ricordo di chi, seppur lontano e rinchiuso, rimane pur sempre parte di una famiglia che s’ostina a non mollare.
Certe sere la famiglia in carcere somiglia ad una briciola: con una briciola non ci si sazia, si rischia di morire di fame. In una briciola, però, qualcuno riesce ancora ad avvertire il profumo del pane appena sfornato: non è illusione, ma semplice nostalgia di casa dietro le sbarre. Quella casa/famiglia che per loro è rimasto l’ultimo luogo in cui sentirsi al sicuro anche in mezzo al buio della disperazione.

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