studente

Qualcuno di loro trascorre notti intere per rendere semplici le cose difficili, qualche altro usa come cavia la figlia o il figlio per capire se la lezione preparata è comprensibile, altri ancora tentano la carta dello stupore per rendere simpatiche idee ostiche e datate. C’è anche una percentuale che improvvisa, ma non è di costoro che vogliamo rendere menzione. Otto giorni all’alba anche per loro, gli amatissimi e contestatissimi padroni delle cattedre scolastiche, meglio conosciuti con l’appellativo di “prof” e di “professoressa”. Ultimi strascichi d’annata, poi capitoleranno pure loro dentro il tepore del sollazzo estivo.
Un mestiere, il loro, che chiede la forza di un manovale e la destrezza di un levriero: passano pomeriggi interi a preparare le lezioni, a scervellarsi su come catturare l’attenzione, a inventarsene una peggio del diavolo per stregare i loro alunni. Poi la mattina entrano in classe e scoprono che tanto è stato tutto inutile, o quasi: perché ogni volta che varcano la porta di quella bottega disordinata e confusa è la vita che salta loro addosso e ingarbuglia le carte: fantasia e svogliataggine, imprevedibilità e colori, stanchezza e tripudio, attesa e disperazione. E loro – aggrappati come ostriche ai loro sudati appunti – fanno memoria della loro vera identità: puoi preparare le lezioni che vuoi, fare tutti i conti che vuoi, tenere bene a mente tutti gli schemi possibili ma a dettare le regole del gioco sarà sempre e comunque colui che sta in fronte a te, lì accovacciato magari in penultima fila a fingersi addormentato, ancora indeciso se dare fiducia a te o assecondare il tepore amico del cuscino. Se ti darà fiducia sarà l’attestano di stima più bello, prima ancora di una possibile comprensione della materia (che magari non arriverà mai, ndr); se deciderà di non lasciarsi intaccare dalle tue parole, a nulla serviranno le bizze e le minacce di una prof incattivita. Avverso o amico, la sua presenza rammenta però la vera vocazione di un prof: insegnare/educare è sapere che c’è da buttare all’aria tutto ogni primo mattino, con l’aggravante inimmaginabile che anche dopo decenni di simile sopravvivenza avverti dentro la nostalgia di ributtarti nella mischia ogni mattino: nonostante tutto, nonostante tanti. Chi non sa educare propone ricette da “guinnes delle risate”: cani antidroga, esercito a ricreazione, truppe di psichiatri, forze di polizia. Chi educa, invece, non teme l’avventura perché forte di una convinzione: “io ci sto. Nel mio piccolo sento di avere qualcosa di buono da proporre a questa mandria di piccoli somari”. Nasce una storia, si riallaccia uno sguardo, germoglia un sospetto: che tu abbia trovato qualcosa che io non ho ancora incontrato. Inizia un pezzo di strada da condividere assieme.
A scuola ho incontrato tanti prof. Ho sempre amato dividerli in due gruppi: quelli che mi hanno insegnato l’evoluzione e quelli che hanno tentato di insegnarmi la rivoluzione. I primi li ho sempre visti certi, sicuri, indiscutibilmente prof; i secondi lo ho visti dibattere, confrontarsi, correggersi. Un giorno Chesterton scrisse: “l’evoluzione è ciò che accade mentre noi dormiamo, la rivoluzione è ciò che accade mentre siamo svegli”: in calce a quella lettura decisi che i secondi valevano la mia stima. D’altronde se l’evoluzione ben s’addice col dormire, di certe mattinate ho capito perfettamente il significato; se la rivoluzione ben s’addice con lo stare svegli, ammiro certi prof capaci di nascondersi dentro la loro materia fin quasi a scomparire, a divenire un tutt’uno con lei. Non si riesce più a scomporli in due: niente doppiature, niente finzioni, amore allo stato puro. Non ricordi il nome ma la loro materia, oppure non ricordi la materia ma il loro nome: ricordi solo che erano un tutt’uno. E’ l’attestato più bello per chi ancor oggi s’ostina a raccontare “come l’uom s’etterna” (Dante: Inferno, Canto XV).

(da Il Mattino di Padova, 2 giugno 2013)

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