disperazioneTeneva al mondo sue soli uomini che le volevano bene: era morto il primo, era morto il secondo, uno dopo l’altro. Entrambi spariti dal palcoscenico del cuore e della vista di lei. Era rimasta sola, una donna sola, senza un uomo accanto. Una carestia di appoggi: senza marito, senza figlio, senza appoggio. Senza cuore che ascolti anche le più minime confidenze: un sussulto del cuore, un moto impercettibile dell’anima, quella lieve tristezza che cala addosso la sera. Nello spazio forse di un’invereconda ruga sul volto – segno del passaggio di stagioni – era sparito l’amore della gioventù e pure quello della maturità, quello che consente di entrare nella canizie certa di una spalla per il domani. Forse ne sarebbe bastato uno dei due: il marito per consolare la perdita del figlio, o il figlio per consolare la perdita del marito/papà. Per la donna di Nain – lett. “la bella”, poche miglia dal villaggio di Nazareth – nulla di tutto ciò: solo l’inumana certezza che nessuno bacerà più il suo viso di donna. “Nessuno più mi bacerà col trasporto delle sere d’estate – avrà mugugnato in cuori suo la donna” (liturgia della X^ domenica del tempo ordinario). Ha ragione: nessuno forse le farà più dolce dono di quei baci familiari; c’è uno sguardo, però, pronto a sanarne la ferita.
Lo sguardo di un Uomo, nel mezzo della folla, si poggia su di lei: “vedendola, il Signore ne ebbe compassione”. La scorse mentre andava fra le donne, piangendo con quel pianto silenzioso e muto ch’è proprio delle madri in fronte alla fatica, una donna costernata nella sofferenza: qual madre, ormai prossima al camposanto dietro il figlio muto, reggerebbe lo spazio di un sorriso? Quell’uomo – che abbiamo appena lasciato nella liturgia vincitore il mattino di Pasqua – tiene occhi troppo larghi per non avvertire lo strazio di quella donna. Un uomo capace di vedere i fiori, i laghi, gli uccelli, gli alberi e trasformare tutto in voce, in preghiera. Il cuore di un Salvatore, le capacità di un poeta: sapeva mettere il cuore negli occhi e inabissarsi, attraverso lo sguardo, nei meandri più turbolenti del cuore umano. “Non piangere, donna!” Chissà quale specie di pianto sorse in quel frangente di compassione l’Uomo di Nazareth: forse un senso di colpa (“Dio mi avrà punito per qualche mio peccato”), forse un malcelato rimorso o forse solo un’immagine sbagliata di Dio: perchè chi dona la vita non può volere contemporaneamente anche la morte. Non può, non vuole, ciò che vuole è tutto schiacciato in quell’invito: “Giovinetto, dico a te: alzati!” E il figliolo obbediente, si levò a sedere sulla bara e cominciò a parlare. Sotto gli occhi attoniti e muti di portatori, gementi e familiari. Sotto gli occhi della madre di Nain che, composta nella sua femminilità, ricevette in dono ciò che poc’anzi era cagione di strazio: “lo rese alla madre”. Lo aveva ripreso dalla morte per restituirlo a chi non poteva più sostenere la fatica del vivere senza di lui. Compì un miracolo perchè una donna/mamma smettesse di piangere.
Glielo disse a Marta, la sorella operosa di Lazzaro: “Io sono la risurrezione e la vita; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno”. Lo ripetè ad ogni piè sospinto dentro le strade polverose dei Vangeli; ma il mondo fatica a darGli credito. Eppure la Scrittura racconta il vero: la morte entrò nel mondo per colpa del diavolo, per Lui rimane soltanto un sonno un po’ più profondo di quello che normalmente piega anche gli uomini più possenti. Un sonno un pochino più pesante che si vince solo con la forza dell’Amore. Nain significa “la bella/la delizia”. Quel giorno a Nain era in scena il contrario della bellezza: la malattia che conduce alla morte. Forse per questo la gente stava uscendo seguendo quella bara giovane: era la mestizia di una sera triste. Come il mattino della pesca infruttuosa, o come quell’altro del sepolcro spalancato. O, meno lontano, come quella sera a casa nostra quando tutto sembrava perduto e Cristo ci disse “Vieni fuori! Alzati!”. Svegliati, muoviti, reagisci, insorgi scrolla la menzogna, datti da fare. Smettila di morire, di rassegnarti, di piangere. Di soffocarti, di strapazzarti, di deriderti. Di frustrarti, di umiliarti, di stare a terra. “Vieni fuori!” E’ ora di vivere!

Alla fine del 2004 è morta a Filadelfia una bambina di otto anni, Alexandra. Quattro anni prima, quando le era stato diagnosticato un cancro, le balenò in testa un sogno: allestire un baracchino per vendere limonate e raccogliere fondi alla ricerca per i bambini colpiti dalla sua stessa malattia. La mamma, col sorriso triste, le disse che sarebbe stato difficile raccogliere anche 50 centesimi per volta. Lei rispose: “Non m’interessa, io ci provo” Il 12 giugno 2004 era riuscita a mobilitare per la causa il suo paese e, a catena, l’intera America, il Canada e la Frangia. Oggi i chioschi delle limonate di Alex si sono moltiplicati in tutto il mondo e sono divenuti un punto d’incontro e di solidarietà.
C’è chi si adatta in anticipo alle misure della bara. Non tutti, pero!

Quaggiù sono i momenti del lutto e del pianto, lassù sono le feritoie inaspettate dentro le quali s’incunea la Grazia dell’Amore. Quello che lambendo il pianto di una madre ridona la vita. Per farle smettere il pianto e farle addossare i vestiti della gioia. Cioè del Vangelo.

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