Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pippo1Come rondini stordite sospese a metà strada tra l’amabilità del Paradiso e la malinconia dell’Inferno. Perchè lo sport è un dio davvero strano: oggi ti bacia e t’illumina, domani t’allontana e ti offusca. E dalla gloria più luminosa sprofondi nell’anonimato più fastidioso. L’abitudine e l’allenamento alla vittoria sovente fa dimenticare il bisogno di allenarsi anche alla sconfitta: perdere, invece, fa sempre bene, risveglia quel talento che per nascoste ragioni era rimasto intrappolato. Non sempre, però, da una sconfitta si torna più forti: il giorno che accompagnai Marco Pantani verso il cimitero dei pescatori di Cesenatico avvertii il tradimento di uno sport che mi aveva forgiato il carattere e acceso la passione da bambino. M’avevano rotto il giocattolo più bello, la mia bicicletta, in sella alla quale avevo appreso un vocabolario che era il concentrato della vita: passione e applicazione, metodo e stile, fantasia e caparbietà, sogno e costanza, emozione e sacrificio. Chino e piangente su quella tomba costruita a mò di salita, mi ripromisi di rincorrere l’uomo che perde prima che la sua foto finisca sul necrologio di un giornale. M’innamorai profondamente di loro, atleti caduti dall’Olimpo della gloria, derubati della corona e vestiti di miseria. Li scoprii fragili e belli, diamanti impolverati e preziosi, frammenti di umanità in cerca di redenzione. Sono diventati la mia silenziosa famiglia assieme alla quale imparare a capitalizzare le sconfitte per diventare uomini più forti. Vivendo “dietro le sbarre” di una galera, a stretto contatto con il sangue delle ferite prese e procurate, sto apprendendo che il male va compreso senza mai giustificarlo: ogni gesto ha le sue radici in una storia ai più sconosciuta. Ho ripreso la mia bici e ho scoperto l’altra faccia del ciclismo: l’umanità ferita e delusa, le ferite e le speranze che nessuno racconta, ho avvertito il rintocco della speranza rimbombare nel silenzio più assordante di una squalifica. Ho intuito che lo sport è una forma di ascesi senza religione.
Pippo Pozzato è uno di loro, per me è diventato il secondo fratello: bello e dannato, l’eroe tatuato della carta patinata e il bambino pensieroso delle confidenze sussurrate ad un orecchio, il predestinato della gloria e il ragazzo che sa chiedere umilmente aiuto. L’uomo è un mistero davvero strano: anche nell’infamia di una sconfitta rimane la scommessa più bella sulla quale investire. Ci siamo trovati nell’inferno e ci siamo stretti la mano: non c’era la folla festante quel giorno di qualche anno fa. E da lì siamo ripartiti per risalire la scarpata, agganciati ad un messaggio di speranza e di luce che solo il cristianesimo è ancora in grado di offrire. Dal momento che l’ascetica sportiva e quella religiosa tendono a ritrovarsi sotto il medesimo traguardo: con l’alternarsi di successo e fallimento, mette l’uomo nudo di fronte a se stesso, lo scuote alle radici e lo spinge verso il bene massimo di cui è capace, nel tentativo di accenderlo. Domani Filippo avrebbe dovuto essere la punta di diamante dell’Italia nella gara olimpica di Londra 2012: per una strana e discutibile sentenza l’hanno bloccato. Gli alberi più alti sono sempre i più battuti. Nella stessa ora sarà nella periferia di Nairobi, chino sulla miseria e a contatto con l’altra faccia della vita. Quella che gli racconterà di come la passione di un sogno a volte ha bisogno della cenere delle sconfitte per tornare più forte. Come gli amori di Venditti, quelli che non muoiono mai: fanno dei giri immensi e poi ritornano.
Nel frattempo della loro lontananza, si studia per diventare uomini migliori.

(Avvenire, 27 luglio 2012)

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