Quattro anni sono pochi per pensare di sapere come va il mondo e poterne prendere le contromisure; ma sono già abbastanza per avere le idee chiare, per impuntarsi se serve, per pensare, per avere delle idee, delle sensazioni, dei sentimenti. Che, giustamente, si esige siano rispettati. Ma non si ha sufficiente forza per garantirsi questo sacrosanto diritto.
Avrebbe del grottesco e – forse – anche del ridicolo la motivazione addotta al riguardo dei maltrattamenti subiti da una bimba che ora ha dieci anni (ma all’epoca dei fatti ne aveva solo quattro), se non fosse che è tutto drammaticamente e illogicamente vero. Le violenze e i soprusi ai suoi danni sono scaturiti dal rifiuto e dal diniego, deciso e inamovibile della bimba, di riconoscere e chiamare “papà” il fidanzato della madre (che non era effettivamente il suo papà). Dunque, come darle torto? La realtà stessa dei fatti le dava ragione!
Di più, se ella non lo sentiva come padre e non gli era affezionata, come poteva presentarlo alle amiche come tale? La schiacciante coerenza infantile ci mette all’angolo, ci fa perdere le staffe, fino ad usare l’unico mezzo con cui è possibile sovrastarli: la violenza.
La sua lucidità era implacabile. “I veri padri non fanno queste brutte cose ai figli”: questo il ragionamento, riportatoci dai notiziari, che avallava la sua tesi e la spingeva nel suo persistente rifiuto. Piccola, è una sofferenza deluderti. Quando sarai grande capirai (sempre che tu non lo abbia già capito, perché mi sembra che tu sia molto sveglia!) che, purtroppo alla volte anche i veri padri (i grandi li chiamano “biologici” apposta, credo: perché non basta generare un figlio, per considerarsi suo padre!) possono, talvolta fare queste brutte cose (e, in verità, anche peggiori) ai propri figli. E anche le vere madri. La realtà che non riusciamo a comprendere è che, nonostante siamo più grandi nell’età anagrafica, a volte sono i bambini ad insegnarci la vita e cosa, di essa, sia veramente importante da trattenere e conservare nel cuore. Nonostante tutto il resto del mondo cerchi spesso di estirparcelo a forza. Ma quando qualcosa ha lasciato le radici nel nostro animo, non è facile strapparcele.
All’età di quattro anni, ha dimostrato un coraggio da leone, che spesso manca ad adulti navigati. Ha rivelato le violenze, si è fidata che la giustizia potesse fare il proprio corso (cosa molto rara, il più delle volte). Un coraggio che manca a tanti che accettano soprusi sul lavoro o in famiglia, lasciano che altri decidano al loro posto, preferiscono lo stipendio alla fine del mese e il quieto vivere alla difesa della Verità. Preferiscono piegarsi, piuttosto che venire spezzati. Principio di sopravvivenza, mi si dirà: sarà, ma io trovo altamente istruttivi quest’inguaribile idealismo, quest’implacabile coerenza e caparbia tenacia infantili. Un pugno nello stomaco al nostro perbenismo!
Tanti sostengono che i bambini acquisiscano una concezione familiare a seconda dell’esperienza che hanno occasione di vivere, che non esiste un unico modo di concepire la famiglia. E ci illudiamo di poter piegare le volontà dei bambini, perché pensiamo che non abbiano una loro. Che, solo perché più piccoli e meno esperti, non siano capaci di provare sensazioni o sentimenti o prendere decisioni in autonomia. In verità, storie come questa hanno l’ingrato compito di ricordarci una grandissima Verità che troppo spesso dimentichiamo. I bambini, pur se in formazione, sono sempre delle persone. Hanno una personalità, un modo di sentire differente da quello dei propri genitori, sensibilità e gusti diversi e – a modo loro – sono perfettamente in grado di spiegare un’idea, un concetto, una percezione, un’intuizione. Fa parte di quella certezza che c’è in ogni nascita, anche se è fatica immane riuscire ad accettarla: i figli non sono mai i figli dei genitori, sono loro affidati, ma sono destinati ad allontanarsi piano piano, fino a prendere il volo. E, solo allora, la missione potrà dirsi compiuta. Solo quando i figli saranno capaci di volare in libertà, i genitori potranno capire se il loro compito è andato a buon fine oppure no.
E, anche se ogni strappo dell’aquilone verso l’alto, è un colpo al cuore perché segna un pezzo d’allontanamento, maturità esige anche la commozione di comprendere che è proprio attraverso questi piccoli e sempre più frequenti strappi che il figlio potrà raggiungere, a piccoli passi, la piena realizzazione di sé. E di questo un genitore non può non gioire.
Ci infastidiscono e ci mettono a disagio i capricci dei bambini. Ma quanti capricci dei grandi sono costretti, loro malgrado, a sopportare da parte dei grandi?
Fonti:
TG5 – edizione delle 13 del 26 gennaio