robertobaggioAppese le scarpe al chiodo calcando l’erba di un prato di provincia: lui che del pianeta calcio rimase per anni l’emblema, il simbolo e l’anima di quella passione che da sola aiuta a far crescere ed alimentare un progetto. Le scarpe al chiodo: ma nei cuori delle tribune rimase ad imperitura memoria la nostalgia di quel sapore che fece di lui – all’anagrafe Baggio Roberto da Caldogno – l’essenza dello sport, quasi un dio per quell’innata capacità di creare ecumenismo all’ombra delle sue prodezze atletiche: un assist, un tunnel, un’acrobazia oppure un semplice nonnulla e tutto lo stadio s’accendeva, si dava inizio a quella forma di liturgia che la domenica pomeriggio annoverava tra i suoi fedeli volti che univano assieme generazioni tra loro eternamente in conflitto. S’andava allo stadio per vedere Baggio, per scrutare quei piedi di cristallo, quel genio lucidissimo, quella fantasia libera di danzare nel verde del prato e di accendere il fuoco della passione nelle tribune. Nell’arco di una carriera è caduto, s’è risollevato, è ricaduto, è ritornato. Ancor oggi di lui si parla perchè il genio – a qualunque campo appartenga – disturba.
Chiuse la carriera nel medesimo modo di come l’aveva aperta: in una squadra di provincia. Ha calato il sipario nello stadio delle rondinelle a Brescia, all’ombra grintosa dell’allenatore Mazzone Carlo da Trastevere. L’uomo che di Baggio conosceva l’altra faccia: il bisogno d’affetto, la nostalgia di una carezza, la lusinga per un tocco. La delicatezza del genio. Roberto gli rimase riconoscente a vita. Sbagliò il rigore mondiale, dopo aver tirato giù l’Italia dall’aereo che la stava prematuramente trasportando in Italia dopo il girone iniziale: uno si sarebbe nascosto. Lui se ne uscì dicendo che “i rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di batterli”. Esageratamente grande. Così grande che basta un semplice anniversario, come quello celebrato dalla Gazzetta dello Sport qualche giorno fa, perchè il calcio allontani i suoi fugaci e piccoli idoli di oggi per ritornare all’ombra di un calciatore che seppe tessere un lavoro fino a farlo diventare una passione condivisa.
Adesso si ributterà in quel silenzio umano che scelse il giorno dopo la sua scomparsa atletica: e che in un mondo di protagonismi isterici ne abbellì ancor di più la statura umana. Cosicchè ognuno se lo poteva e se lo potrà immaginare come e dove vuole, o semplicemente come meglio gli pare: nelle pampas argentine a cacciare selvaggina, nel mezzo di una liturgia buddista a liberare pensieri, a passeggiare in compagnia di affetti per lungo tempo rimasti lontani dal suo cuore di padre e di sposo o semplicemente a seminare briciole di bontà in quell’Oriente a lui tanto caro. Magari un giorno ritornerà: dal genio vale la pena di aspettarsi qualsiasi cambio improvviso di rotta. Ritornerà stavolta dall’altra parte della cattedra per allenare una nuova generazione di campioni. Per riportare in auge uno stile nuovo di testimoniare e di vivere lo sport.
Sopratutto oggi che l’America ha inaugurato una nuova rotta nel campo dell’educazione: se un maestro non riesce a trasmettere un messaggio che accenda i suoi alunni, attestatane la verità viene licenziato di punto in bianco. Finalmente ci s’accorge che se un branco di somari continua a proliferare qualche responsabilità va additata anche a chi non sa accendere la luce della passione.
Nella grande scuola chiamata esistenza.

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