Compiti per casa. Leggere e confrontare queste due opinioni per meglio comprendere finalità e differenza nell’uso della Parola.

a) Al drammaturgo americano Edward Albee (Chi ha paura di Virginia Woolf) venne chiesto una volta quali effetti si attendesse dai suoi drammi. La risposta fu scioccante per il suo sarcasmo: “Vorrei impressionare e coinvolgere gli spettatori al punto che, uscendo barcollando dalla rappresentazione, si facciano quasi travolgere dalla prima auto che passa”.
b) L’Isaia profeta – rammentato dal Matteo evangelista oggi – così staffilava il popolo: “Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani” (Is 6,9-10).

Seguirà discussione in classe. Il lavoro esige massima attenzione.

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Esce. Siede. Guarda. Parla (Mt 13,1-2). Potrebbe finire qui il Vangelo del Lieto Annunzio questa domenica. Tre verbi esplicitamente tratteggiati da Matteo evangelista – uscire, sedere e parlare – e uno immaginato per diretta conseguenza – osservare -: s’inabissa nel mezzo lo scomodo atteggiamento del Rabbì Nazareno. Il resto è corollario ed esempio, parabola ed ammaestramento, passione per l’insieme e cultura del particolare. E’ la storia di terreni che producono, che non producono, che producono solo a metà. Che bruciano il seme, che lo fanno fecondare, che non lo ospitano. Ai discepoli, in sede privata, spezzerà per loro tale parabola affinché i loro cuori s’aprano alla precisione del messaggio. Ma tutto parte da quattro verbi susseguenti tra di loro e un avvertimento: quella domenica il Maestro non son s’era preparato la predica! Come mai, forse, l’aveva fato in vita sua. Non che improvvisasse, ma teneva quell’arte segreta e scomoda (che tanto male alle ginocchia tutt’ora procura!) di pitturare parole giuste, esatte, inattese a seconda dell’ascoltatore, della situazione, del contesto: un geniaccio della comunicazione. Lui!
“Quel giorno Gesù uscì di casa”. Chissà perché! Forse per riposare, per pregare, per stare in compagnia di se stesso. O forse teneva appuntamento con qualcuno: con il Padre, o con gli uccelli del cielo, con i pesci del mare, con la traiettoria del gabbiano. Intendiamo solo che uscì di casa. Mollando, forse, i suoi discepoli ancora sotto le coperte, nei loro viaggi fantasmagorici, nella stanchezza di una missione all’improvviso complicatasi. Tutte deduzioni al cospetto di una sola certezza: uscì. Cioè abbandonò casa sua, giocò d’anticipo sulla giornata, volle respirare. Uscì di casa “e si sedette in riva al mare”. M’interessa questo Gesù seduto. Sembra quasi che non tenga incontri da rispettare, esigenze da firmare, colloqui da tessere. Si siede di fronte a quel mare amico. O lago che dir si voglia. Gesù che si siede: i benpensanti rideranno. E finché lo fanno… lui riposa. Il Vangelo accende spesso i riflettori sull’umana fisicità di Gesù. Attorno al pozzo di Samaria se ne stava accaldato e stanco per il lungo viaggio. Nella furibonda esplosione della tempesta in mare, Pietro lo beccò a poppa che dormiva beato: e lo richiamò alla dura legge del mare. Per poi farsi richiamare alla massacrante legge della fede! O quando, passeggiando, si perdeva a guardare i gigli del campo, la zizzania mescolata col grano biondeggiante. Tante volte, stanco per il viaggio, si siede. A mangiare. A riposare. Ad apprezzare le nuvole d’oriente, la luce della sera, il chiarore del mattino. Rivestito di risurrezione, chiederà pesce arrostito sulla riva del lago. L’Evangelo non mette tempi. Dice solo che sedette!

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Per poi lanciarti subito là, in mezzo alla gente che si raccoglie, che lo va cercando, che ha fame di Parola. La sua Parola. La Sacra Pagina non censisce la folla: dice solo “tanta folla che dovette salire su una barca”. Impressionante: sempre così con Lui. Manc’avesse iniziato a parlare! L’hanno semplicemente visto uscire (forse) e sedersi. O forse la folla che abita la Scrittura è meno imprudente di noi! Noi l’abbiamo visto uscire, sedersi e parlare. La gente quel mattino ha contato un’azione in più: l’ha scorto uscire, sedersi, osservare e parlare. Mica una svista da poco la nostra! Così si spiega quella sete, quella fame, quel digiuno di Parola da saziare. Innamorati di quello sguardo a tal punto da dirgli: “Maestro, che dici di questo mondo?” Lancinante per noi: la gente afferra quando uno parla dopo aver osservato, pensato, pregato. Riflettuto, adorato, interiorizzato. La gente Gli accende le parole perché lo sente uno di loro, vicino alla vita, uomo tra gli uomini. Perché quelle sillabe parlano di pesci e di terra, di fatica e di dubbio, di rischio della semina e speranza di raccolta. Parole che s’aggrappano alla terra per crearti nostalgia di cielo! Non sono parole dette a caso: prima ha osservato. A lungo? Per poco? Bene? Male? Ti basti quello sguardo appoggiato sul mondo per zittirti. Le sue parole feriscono e imbavagliano, traumatizzano e scuotono, lacerano e dissetano, anticipano e spaccano, disturbano e inabissano. Fanno morire e fanno vivere! Che differenza con le nostre parole, quelle che scodinzolano libere nei nostri templi quaggiù! E’ in corso una tacita violenza nei confronti della Parola. S’avvertono interferenze fastidiose: ma non è problema di acustica, di impianti sonori nelle navate, di posizionamento del microchip sulla veste sacerdotale. Annunciare la Parola è avvertire il brivido sulla pelle, l’emozione nella voce, lo stupore nell’infrangerti contro una Voce che ha la pretesa di essere la prima anche se da una vita la leggi. Parola che quando t’avvicina ti mette in ginocchio, ti zittisce, ti rompe i timpani, ti condanna se l’improvvisi, se la sfotti, se la maltratti. Se non l’ascolti con gli occhi prima che con la testa. Come mai la riva si riempì, Gli chiesero di parlare, stettero attoniti mentre oggi le chiese si svuotano, chiedono di tacere, stanno dormienti? Questione di sguardi: o accetti la compagnia scomoda di quella Parola o le tue parole saranno ripetitive, banali, sconsolate, grigie, infelici, mediocri, senza originalità. Politicamente corrette ma divinamente assurde.
Sul lago la gente, probabilmente, soffocava all’urto violento e tenero di quelle sillabe. Perché oggi la parola di Dio è ridotta alla ninna nanna domenicale? Dov’è lo stupore, la meraviglia, l’immaginazione, la beatitudine, lo sconforto nell’avvertire una Parola che, puntuale, ti mostra in presa diretta la tua faccia, la tua esistenza, il tuo lento appassire quaggiù? Eppure ogni volta che t’affacci sulla soglia della Parola è la prima volta. Mai sentita quella Parola. Ne scruti l’irripetibilità. Non immagini il finale. Ne avverti il rischio. Parola pericolosa perché “come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare… così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata” (Is 55,10-11). Un monito: smettila di appisolarti sulla Scrittura! Un invito: lasciati sorprendere dalla sua novità.

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Basta poco e sfida diventa sfiga, porci pòrci, stella stalla, zuppa zappa, salato saluto, nudo nido, facile fucile, sale sole, bambola bombola, pugno pegno, felce falce, viso vaso, pagella padella, bidella budella, grappa groppa, facile fucile, ridere radere, pista posta.

Basta ancora meno. E Parola diventa parola.

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