Come uno spazio andato in disuso al quale, invece che l’abbandono, viene concessa una nuova destinazione d’uso: una nuova chance. Così è di certe mani: mani che hanno premuto grilletti e acceso la morte, mani che hanno stretto e costretto l’uomo a soccombere, mani che hanno mosso interessi e firmati cambiali di disperazione. Mani, nulla di più: lo strumento primordiale di qualsiasi opera d’arte, d’ingegno e d’umanità. Mani di uomini pizzicati, per l’appunto, con le “mani nella marmellata”. Gli stessi uomini che oggi si lasciano ritrarre con le “mani nella pasta”: quella dalla quale fiorisce la fragranza dei panettoni della Pasticceria Giotto del carcere di Padova. Tanti gusti: classico, al cioccolato, cioccolato e caffè, cioccolato e fichi, alla birra, al Kabir, al Fior d’arancio. Una gamma di scelta pari alla varietà di strade che li hanno condotti fin qui, dentro il ventre di un’oscura galera che per tanti di loro sta diventando il grembo di una madre che permette loro di rinascere. Di rimettersi in forma, di ridarsi una forma, di stare in forma con se stessi e i loro sogni.
Nel loro panettone è nascosta la fragranza e la bravura dei maestri pasticceri, la lunga e paziente lavorazione, la scelta accurata delle materie prime e tanta manualità e ricerca per stanare i migliori prodotti: qui dentro l’indice massimo di malvagità si vince solo con il quoziente migliore di bellezza e di bontà. Ciò che nasce non è un semplice panettone, è un accredito di vita: impastando la pasta scoprono d’essere in procinto d’impastare la loro storia, annusando il profumo che esce dai forni fiutano nuove possibilità per loro, confezionando i loro prodotti scoprono che la forma esteriore non è vanità bensì il sospetto di una bellezza interiore. Come lo è dei panettoni così lo è degli uomini: degli uomini che hanno ferito, di quelli che si sono feriti. Forse per questo il vero guadagno non è tanto quello di portare a casa un salario – che rimane il segno autentico di una nuova dignità – quanto l’accorgersi che, dando forma ai loro prodotti, stanno dando una forma anche a loro stessi. Come quando s’accingono a fare lo zabaione: al posto delle uova metteteci il loro passato, al posto dello zucchero metteteci il loro futuro. La squisitezza di quella crema, che tanto sazia i palati fini, è proporzionale al tempo passato a mescolarla. Così è di loro: più mescolano i drammi del passato con le attese del futuro e più s’accorgono, nel presente, che la loro vita può cambiare, sta cambiando, certamente cambierà. Perchè dando forma ad un prodotto, l’uomo s’accorge di andare formando se stesso: il lavoro – sopratutto in carcere – è l’occasione di conoscere meglio se stessi e il mondo. Anche Dio che nel Natale ha creato l’impasto per eccellenza: quello che mescola la terra al cielo.
Sono panettoni che vanno a ruba perchè non sono semplici panettoni. Sono frammenti d’uomo, echi di una storia prima stordita e oggi risvegliata, scommesse in procinto d’essere vinte: l’uomo, quand’è veramente tale, tutti lo vorrebbero stringere a sé, portarselo a casa, averlo un giorno come ospite d’onore attorno al tavolo. La vera piacevolezza, però, è quella d’abbracciarlo quando è per terra: sfiduciato, senza più olio nel motore e inventiva tra le mani. Coglierlo in quell’attimo esatto del fallimento è farsi trovare pronti quando l’uomo è più sensibile alla bellezza, magari perduta anzitempo. E’ rivolgergli l’invito più affascinante: contribuire a dare un volto alla bellezza e alla bontà. Il panettone si compra per mangiarlo: a lasciarlo nella credenza sarebbe follia. La sua storia l’apprezzi mangiandolo. Anche Dio, fra poco Bambino, un giorno si lascerà mangiare nel Pane: dietro le sbarre certe coincidenze sono rintocchi di Salvezza. Annunci di bel tempo.
(da Il Mattino di Padova, 7 dicembre 2014)