bambino soldatoBambini soldato. Mine antiuomo, che sono sempre e soprattutto antibambino. Lo stesso si può dire per le ormai famigerate “bombe a grappolo” che, dai tempi della sanguinosa guerra combattuta nelle Repubbliche della Ex – Iugoslavia fino agli attuali conflitti che tormentano il Medio Oriente, continuano a mietere vittime, per lo più innocenti.
E l’elenco – purtroppo – è molto lungo, e continua ininterrottamente ad accrescere. Tanti sono gli scontri armati tutt’ora in atto, nel mondo intero, che devastano i rapporti e insanguinano la fraternità umana, nella quasi totale indifferenza generale. In qualunque conflitto, dal più piccolo al più grande, i primi a rimetterci sono sempre e inevitabilmente loro: i bambini. A partire dai conflitti domestici, quelli che lacerano l’unità di tante nostre famiglie e che allungano le quantità di pratiche gestite dai tribunali. Ne abbiamo avuto ulteriore riprova in questi giorni, attraverso il filmato di quel bambino di Padova che ha sconvolto l’Italia. È perfino inutile soffermarsi a condannare l’accaduto (cosa, per altro, parecchio rischiosa, quanto meno finché non si conosce pienamente i retroscena di vicende particolari e delicate come queste) per la violenza, l’indelicatezza e la mancanza di rispetto nei confronti del bambino. Mi preme piuttosto sottolineare come queste situazioni siano molto più diffuse di quanto si possa pensare (pur se non tutte con la medesima gravità e violenza). Quando le famiglie si disgregano, nel mezzo ci stanno i figli: bimbi contesi, a volte trasformati persino in merce di scambio o materiale da ricatto, durante lo stabilimento delle condizioni di divorzio. Trattati come benefits oppure aggravi (a seconda dei casi), quando non come escamotage per ottenere vantaggi economici oppure rivalsa (anche solo psicologica) nei confronti dell’altro coniuge. Deliri di onnipotenza, di cui i figli sono talvolta complici (spesso inconsapevoli), ma  – innanzitutto e in ogni caso – vittime. Perché loro è il mondo andato perduto, loro le certezze andate in fumo, loro le radici perdute. Ma soprattutto: sono i figli ad essere in fase di crescita, nel pieno della costruzione della propria personalità; sono loro a dover intraprendere in futuro il difficile compito di formare una famiglia e partire da una che si è disgregata non sarà mai un aiuto né un incoraggiamento ad essere fedeli a quell’«amore per sempre», a cui pure noi tutti aneliamo e desidereremmo raggiungere, almeno in qualche modo (per quanto imperfetto esso possa essere).
Ecco quindi che un solo bambino diventa come il simbolo di tutti quei figli contesi e sballottati tra un genitore e l’altro, con abitudini confuse circa il luogo che è possibile chiamare “casa”, “famiglia” e a volte persino “papà” o “mamma”. Provare a guardare tutto ciò non secondo l’ottica diritti/doveri degli adulti, ma a partire dalle necessità dei più piccoli cambia radicalmente la visione di tante questioni e sottolinea come, il più delle volte, la legislazione – che a parole si pone l’obiettivo della loro tutela – sia in realtà assolutamente incapace di salvaguardarli davvero, tenendo conto dei loro bisogni, desideri, sogni, inclinazioni, aspirazioni e affetti.

L’attualità di questi giorni è particolarmente prodiga di episodi che abbiano per protagonisti i giovanissimi: se all’interno dei confini del Bel Paese, la cronaca che li riguarda ci parla di avvocati, legge e sua attuazione nei confronti di un bambino, all’estero ci sono ragazzi che prendono su di sé le speranze di un’intera nazione (e non solo).
Dai giornali apprendiamo che si può rimanere gravemente feriti, con un colpo d’arma da fuoco, a 14 anni, tornando da scuola. E il motivo risiede proprio in questa terribile colpa: voler andare a scuola. È  quanto è successo qualche giorno fa, a Malala, una ragazza pakistana considerata dai talebani un’attivista e una pericolosa spia. Una ragazzina che ha rischiato la vita per aver parlato troppo, denunciando, attraverso un blog in collaborazione con la BBC, i soprusi, le angherie, gli attentati e le prepotenze dei talebani volti ad allontanare le ragazze dalle scuole e dagli istituti, per impedire loro di studiare e di emanciparsi. La ragazza è considerata un pericolo e un bersaglio in quanto “contraria ai talebani”, il suo stile di vita è definito “laico”, mentre il suo lavoro in favore dell’istruzione delle donne è considerato “un’oscenità”: per tali ragioni, gliel’hanno giurata e sono pronti a riprovarci, nel caso in cui la giovane riuscisse a salvarsi (in seguito all’agguato, ha subito gravi conseguenze, è stata operata a Birmingham, ma non è ancora del tutto fuori pericolo, né si conoscono i reali danni causati alla sua integrità fisica).
I casi riportati sono esempi assolutamente diversissimi tra loro, che tuttavia egualmente evidenziano un cortocircuito nel rapporto tra le generazioni. Bambini cresciuti troppo in fretta, ragazzi con preoccupazioni da adulti e giovani con quel coraggio da leone di contrastare i soprusi dei più forti che è mancato alle generazioni precedenti.
Quanto spesso capita di apostrofare in modo irriverente i più giovani, giudicati incapaci e poco volitivi: eppure quanto ci preoccupiamo che abbiano una crescita graduale, una maturazione affettiva e una serenità nella loro crescita? Riusciamo ogni tanto a prendere a cuore le loro paure, invece di stigmatizzare soltanto i loro errori? Sono sempre più convinta che la prevenzione della violenza delle giovani generazioni vada combattuta innanzitutto mostrando un clima di serenità, ma anche di disponibilità a sanare i conflitti in modo sano e costruttivo per tutti.
Guardiamo ai contrasti internazionali con una commiserazione distaccata, accompagnata da un senso di ineluttabilità, riempiendoci la bocca della parola “pace”, quasi si trattasse di manna da attendere dal cielo. Tuttavia, i primi conflitti da affrontare sono proprio quelli che ci riguardano da vicino, quelli che coinvolgono le nostre famiglie, il nostro vicinato, il nostro gruppo di amici, magari la nostra parrocchia. Siamo spesso indulgenti con quanto ci riguarda, pensando siano sempre “cose di poco conto”, che per questo stesso motivo sono destinate a risolversi in autonomia, senza che valga la pena di impegnarsi in prima persona. Forse sarà banale, ma se è vero quel detto che è attribuito a Gandhi, il primo “sintomo” della distanza tra i cuori è quando si inizia a urlare: in tal caso, sarà bene, come primo “passo di pace”, all’accorgersi della distanza creata, non ampliarla, ma – al contrario – cercare di colmarla, abbassando per primi il tono della propria voce, mettendo da parte almeno un po’ di orgoglio. Perché se la pace (come credo) è una strada da percorrere, non è possibile pensare di evitare la fatica…

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