Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

viscere o uomo giallo

Qual è la sensazione che fa più male di tutte? Probabilmente, a chiunque,  verrebbe da rispondere: la lontananza.
Si può manifestare in tanti modi. Può essere una lontananza fisica, dovuta a cause non del tutto dipendenti da noi (il lavoro, la malattia, i doveri sociali od ecclesiali). Molte volte, si tratta di una lontananza spirituale e, forse, è quella che procura maggior dolore: vedere una persona a noi cara, fisicamente vicina, ma percepirla come spiritualmente lontana, abissalmente lontana. Percepire, magari, che qualcosa non va, o, anche solo, qualcosa la preoccupa, ma non sentirsi nella condizione di poter fare nulla, perché i legami sono come allentati, sfilacciati. Insomma: il cuore è altrove. E, talvolta, anche la testa.
“Dov’è il fremito delle tue viscere?” si domanda il profeta Isaia che, con questa espressione, richiama l’intimità più profonda, i sentimenti più autentici ed inestinguibili, quelli che, come un fiume carsico, riprendono vigore dalle profondità, proprio quando temevamo che il loro corso fosse così inaridito da essersi prosciugato. Anche noi usiamo il termine viscerale, ma, forse, per un malcelato pudore per ciò che viene dal nostro intimo, in genere lo attribuiamo a ciò che è negativo, per cui il primo sentimento che colleghiamo a questo aggettivo è l’odio.
È pur vero che Cristo sottolinea che è “quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri, fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, sguardo maligno, calunnia, superbia, stoltezza” (Mc 7, 20 – 22). Ciò però non significa che dall’uomo vi escano solo le cose che lo contamino. Nelle profondità dell’abisso umano possiamo trovare molto di più: la forza della perseveranza, la pazienza, la speranza nelle avversità, la tenacia, la fiducia.  

Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora santa e gloriosa. Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito delle tue viscere e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità, perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità (Is 63, 15 – 17)

La riprova che il dolore maggiore risiede nella lontananza lo vediamo in ciò che maggiormente dà gioia. Ed è il ritorno.
Per questo, il profeta chiede misericordia. E sa cosa chiede. Perché, prima dei trattati di teologia, è Cristo stesso, che, esortando ad essere “misericordiosi come il Padre vostro” (Lc 6, 26) ci dice che Dio è Misericordia, la misericordia cui attinge chiunque voglia usarne ad un fratello. È alla fonte, infatti,  che dobbiamo andare, se vogliamo accedere alle risorse che sorpassano l’umano, che chiedono la profondità di chi sa scandagliare gli abissi e trovare la Bellezza anche in un’oscurità che appare impenetrabile.

Anche il Vangelo richiama ad un ritorno, che diventa accoglienza e incontro, finalmente autentico.

«Anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?». (Gv 5, 37 – 47)

Voce e volto: sono le modalità principali con cui l’uomo conosce e ri-conosce, con cui l’uomo entra in relazione. È a questa sete, di conoscenza e di relazione, che fa appello Cristo, con un accento di delusione, perché si accorge di una ricerca che non è sincera.
«Ma voi non volete venire a me» (Gv 5, 40 ): una frase, che trafigge come un dardo, incastonata proprio nel mezzo del discorso di Cristo. Di fronte alla libertà di chi si sottrae al suo appello di grazia, persino Cristo si ritrova con le mani legate. È la disdetta che abita queste parole: quando la vanagloria abita un cuore, è difficile che Dio possa prendervi dimora, anche se Lui lo desidera ardentemente: « «Sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
«Vi conosco!» (Gv 5, 42): è come il grido di vittoria, quando si gioca a nascondino. Mosè e il popolo d’Israele: una storia, lunga secoli e millenni. Una storia che profuma di deserto, caparbietà, aspettative, attese, sogni, speranze. La storia di un popolo schiavo che impara, con fatica, cosa significhi giocarsi la vita nella libertà. Un popolo, che diventa figura della Chiesa e di tutta l’umanità.

Un unico amore, quello di Dio, per un’unica storia, un’unica salvezza, nei secoli: per tutti gli uomini e per ogni uomo, perché quell’offerta di pace e libertà risuona ancora, oggi, nel cuore di chi si ferma un attimo ad ascoltare quel “mormorio di vento leggero” di cui ci parla Elia (1Re 19, 9 -16).

Rif. letture festive ambrosiane, nella II domenica dopo il Martirio del Precursore

Fonte immagine: “Viscere o uomo giallo” – Massimiliano Ferragina (Acrilico su tela)

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