Con la barba, i capelli lunghi e i vestiti magari “alla Giovanni Battista”, un po’ vintage per venire considerato normale. Anch’io, per anni, sono stato vittima di questo tranello: immaginarmelo così il missionario. Con l’aggiunta di una valigia sempre pronta, pronti entrambi a salpare verso dei lidi estremi per portare la novella di Cristo. Perchè, ne ero davvero convinto, erano gli altri ad avere bisogno d’essere evangelizzati: “Sono nato in una famiglia cristiana, dunque sono cristiano”. Cristiano di nascita, per natura, tradizione. Ottobre, nel calendario della Chiesa, è il “mese missionario” per antonomasia: trentuno giorni di tempo a disposizione, ripetuti ogni anno, per ricordarci che la Chiesa o è missionaria oppure muore di claustrofobia. Missionaria per non affogare nella gelosia di (trat)tenere soltanto per sé quell’immane bellezza di cui Cristo l’ha dotata. Missionaria, anche, per non rischiare di diventare incapace di capire il mondo: la Chiesa, testimoniando il suo Dio, provoca il mondo; anche il mondo, nelle sue incoerenze, provoca la Chiesa a rimotivarsi. Costringendola a reinventare il suo modo di stare al mondo.

Siamo tutti, dunque, missionari in partenza per la nostra Terra Santa: una terra che non è ubicata tra Israele e Palestina ma che corrisponde a quei pochi metri quadrati dove sta accadendo la nostra vita feriale. Quella che, guardata da fuori, ci pare così insulsa da non apparire quasi degna di narrazione. Certo: missionari nelle zone sperdute del pianeta ma, ancora prima, nelle zone stra-conosciute di casa nostra: davanti alla lavatrice, al tornio, ai fornelli. Nel luogo di lavoro, di sofferenza, di passione. Perchè il missionario non è soltanto colui che parla di Dio ma, prima, colui che si arrischia di diventare Cristo agli occhi altrui. Prima di tutto missionari a casa nostra, dunque: per diventare, poi, profumo di Dio che dalle nostre finestre esce ad infilarsi nelle narici del mondo intero.

Mi ha sempre affascinato che la Chiesa abbia scelto Santa Teresa del Bambin Gesù come patrona delle missioni. Una ragazza morta giovane, a ventiquattro anni, mai uscita dal suo monastero di clausura, è diventata la protettrice di chi non sta mai fermo nell’intento di raccontare Cristo con la sua vita. Pare un’assurdità, ma lo è solo per chi non riesce ad afferrare quante anime siano state cambiate dal suo sì. Dalla sua testimonianza di vita. La vita di una ragazza che, rinchiusa in pochi metri quadrati, ha dato il meglio di sé non facendo cose straordinarie ma rendendo straordinarie le cose ordinarie. Andò in missione, prima di tutto, nella sua vita.

(da “Specchio” de La Stampa, 9 ottobre 2022)

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