Mai visto, mai incontrato, mai stretto la mano. Nonostante ciò l’annovero tra i miei pochi maestri. Del suo profumo sono imbevute tante tristi giornate. Lui si chiama Viktor Emile Frankl ed era uno psicologo ebreo. Morto nel 1997. Come tanti suoi connazionali, conobbe il lager di sterminio di Auschwitz e la follia dell’umano pensiero. La condizione del campo di concentramento era agghiacciante: i camini, fumando, diffondevano un fumo acre di carne umana bruciata nei forni crematori. Di tanto in tanto, qualcuno cedeva e si buttava contro i fili spinati ad alta tensione che difendevano il lager. La visione di quello straccio di cadavere vestito della casacca a righe dei deportati, aggrovigliato tra quei fili che lo avevano fulminato, era per qualcuno una tentazione forte: farla finita per sempre! Ma Frankl seppe resistere. Aveva giurato a se stesso di non “correre al filo”, di non lasciarsi mai annientare dalla disperazione. Nell’oscurità di quell’inferno, seppe alimentare dentro di sé e nei suoi compagni, una certezza che lo salvò: la vita ha un senso, anche dentro quella bolgia. Uscito dal lager, Viktor Frankl non ha fatto altro che andare in giro per il mondo a dire a tutti: “Tenete duro, perché per tutti la vita ha un senso”.
La Scrittura Sacra trattiene in grembo profumi vergini. Simili a quelli del pane appena sfornato. O del bucato appena sciacquato. Voci che, seppur nel mezzo dell’esilio di Babilonia, fanno entrare la vita e la speranza. Dal cercare non puoi uscire, ma possono venirti a trovare: gli affetti, i ricordi, i pensieri. L’immaginazione. “Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù” (40,1-5.9-11). Una notizia sorprendente: da dentro la desolante panoramica del suo tempo, Isaia racconta la consolazione di Dio, di quel Dio i cui unici trofei sono gli agnellini stretti al petto. E le pecore madri che conduce piano piano. La Scrittura testimonia la schiavitù dell’uomo: di ieri, di oggi, di domani. E dal di dentro della schiavitù, accelera la liberazione. Cerca di rimetterti in piedi. Fa rialzare lo sguardo oltre le sbarre. “Alza la voce, non temere” – si raccomanda Dio per bocca dell’innamorato Isaia. Magari sopra un monte di desolazione, visto che la schiavitù ha solo cambiato volto. Ieri: gulag, lager e reticolati. Forni crematori, lavori forzati, fili spinati. Camere a gas, fucilate, isolamento. Sterminio, assassinio, annientamento. Oggi: mostri in prima pagina, notizie bomba, pubblicità. Maghi, astrologi, cartomanti. Tifo sportivo, peste razziale, guerra tra club e religioni. Totip, Enalotto, Gratta e Vinci. Veline, velone e tronisti. Umts, messaggerie e chat. Zapping, auditel, share. Per chi reca liete notizie, cambia la prigionia ma perdura il messaggio: gridare che la schiavitù è finita.
“Non muoio neanche se m’ammazzano” – disse un altro internato, Giovannino Guareschi. Perché l’uomo dal di fuori è una faccenda semplice da comandare. Dal di dentro è tutta un’altra storia: potrebbe anche decidere di non farsi morire.