maestraChissà se le maestre avranno insegnato loro che la grammatica italiana contiene svariate figure retoriche: allegoria e anacoluto, disfemismo ed endiadi, epanalessi e ipallage, iterazione e litote, metonimia e pleonasmo, similitudine e sineddoche. E altre. Domanda lecita – in questo giorno in cui la politica costretta tace – nel ripensare all’uso che s’è fatto della parola in questi mesi di tante offese, di pochissima creatività e d’invisibile proposta critica da parte dei vari candidati e schieramenti. E’ quasi sembrato che l’unica figura retorica conosciuta fosse l’iperbole, quella possibilità data dalla grammatica di esagerare nella descrizione della realtà grazie a delle affermazioni che amplifichino la verità. “Esco a fare quattro passi”: ma in realtà si cammina magari per un’ora. “Darei la testa per quella macchina” quando invece si sa per certo che il concessionario preferisce i contanti. “Ci facciamo due spaghetti” anche se tutti sanno che nessuna dieta prevede un’insignificanza di carboidrati così drastica. Ma queste sono iperboli innocue, al pari di quelle che cantano l’amore che sfiora la pazzia sulle pietre dei muretti: provocano sorrisi, tutt’al più tenerezza, a qualcuno motivi di riflessione. Non portano quel fastidio che arreca l’iperbole quando a farne le spese è il vissuto della gente comune.
La promessa di battere il cancro entro i prossimi tre anni, il giuramento di “farla fuori dalla vasca”, il tacciare come Demonio l’avversario, la mistificazione della realtà o le affermazioni eclatanti sulla partecipazione alle varie manifestazioni mostrano l’uso distorto dell’iperbole: non fosse altro per il fatto che la vita della gente non andrebbe ne esagerata ne ridimensionata: andrebbe letta e valutata per quella che è. Ma se la politica è un gioco, allora l’iperbole permetterà di guadagnare ascolti, gli ascolti porteranno simpatia, la simpatia quasi sicuramente assicurerà il voto. Ma tutto questo non genera quell’affetto e quella stima verso un’arte così nobile e delicata alla quale è affidata la gestione del bene comune. Eppure loro lo sanno che dietro la gioviale e cortese allegria tutta italica brancolano due constatazioni. Una è la mancanza di prospettive per le nuove generazioni associata alle condizioni di precarietà e di sottomissione in cui i giovani sono costretti a lavorare. I talenti se ne vanno, portando nel cuore l’amarezza d’aver dovuto abbandonare il loro paese: che sprecona l´Italia. L’altra è che forse per la prima volta nella sua storia, l’Italia deve fare i conti con figli aventi meno prospettive di lavoro dei loro genitori.
Ma se la risposta all’abuso dell’iperbole da parte di uno schieramento trova come controparte affermazioni da violente dalla strada – «odiare i mascalzoni è cosa nobile» – allora l’incitamento all’odio e alla violenza diventa ancor meno educativo perchè annebbia le menti e appesantisce le intenzioni. L’11 settembre 2001 è finita la festa a New York. L’11 marzo 2002 in Europa. Dopo la sensazione di un’eterna sicurezza, viviamo il ritorno della paura. Se prima di quelle due date tristemente storiche ciò che frenava il divertimento doveva sparire ora, se non altro, s’avverte una nostalgia di uomini e donne che dispongano di una serie di valori attorno ai quali costruire un consenso sociale.
Oggi si voterà, forse con un pizzico di nostalgia e di rimpianto perchè è proprio in tempi di mobilità e di flessibilità che s’avverte il bisogno di qualcosa di forte come criterio di orientamento. Perché parole come globalizzazione, digitalizzazione, secolarizzazione, cosmopolitizzazione, individualizzazione non celebrino troppo presto le nostre esequie.

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