esame

Il giorno in cui lo nominarono senatore a vita, Renzo Piano – architetto di fama mondiale – fece una scelta di campo: decise di devolvere il suo stipendio ad un pool di sei giovani architetti incaricati di avviare una riflessione innovativa sul futuro delle periferie. Era il 30 agosto 2013. Qualche mese prima – il 13 marzo 2013 – Jorge Mario Bergoglio divenne papa, usando e osando il nome di quel giovane folle e innamorato che dalle campagne di Assisi, periferia della Chiesa, diede uno scossone alla cristianità intera: Francesco, per l’appunto. Entrambi, l’archistar e il Sommo Pontefice, hanno messo immediatamente al centro del loro riflettere lo spazio della periferia, non tanto come zona di “degrado” quanto come occasione di rinascita per l’intera città, forse anche per l’intera Chiesa. «Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile – scrisse Renzo Piano, le cui parole sono entrate come traccia dell’Esame di Maturità – E’ fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie». Sembra l’eco o l’anticipo della medesima riflessione di Francesco, uomo scelto dallo Spirito alla periferia del mondo: «Ripartire da Cristo significa non aver paura di andare con Lui nelle periferie […] Dio va sempre oltre, Dio non ha paura delle periferie. Dio è sempre fedele, è creativo, non è chiuso». La periferia come frontiera dove abita la verità della vita, bella o brutta che sia. C’è il vivere gracile, fallito, indigente: è la vita. Punto.
La periferia non è certo un luogo magico: casermoni fatiscenti, manti stradali deteriorati, servizi pubblici desolati e desolanti. Gli autobus lenti fin quasi all’esasperazione, la penuria di cinema, di teatri, persino di campetti parrocchiali da offrire come alternativa alla strada. La periferia è una bolgia dell’umano ma anche una terra di frontiera che accende l’immaginazione, che sta ai margini della vita ma è più vita della vita. Ecco, dunque, che lo sguardo di Renzo Piano e quello di papa Francesco s’incrociano in un punto comune: la fragilità della periferia, quasi che abitare la periferia sia un po’ riscoprire la fragilità stessa insita nella nostra natura di uomini e di donne, il punto di ripartenza per riaccendere la bellezza. La fragilità del quotidiano, quella delle relazioni, forse anche la fragilità della speranza che sovente è costretta a destreggiarsi, con mille peripezie, in mezzo alle traversie dell’esistenza. «Le periferie sono le città del futuro – continua Renzo Piano -, sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?». Un po’ l’anelito e la sfida che oltre Tevere, in maniera indefessa sin quasi alla commozione, continua a rilanciare Francesco, laddove nei suoi discorsi la periferia è diventata la chiave d’ingresso del suo cuore: non solo le periferie delle città, delle megalopoli, del degrado urbano, ma anche e sopratutto le periferie esistenziali, dove l’uomo è costretto a fare i conti con i grandi quesiti che abitano nel suo cuore, sempre in ballo tra il dramma e la nobiltà.
Non bastano, però, gli appalti, i fondi e i finanziamenti: le periferie invocano l’amore, la passione, il gusto e il senso del bello, il piacere dell’ordine e la cura dei dettagli. Una periferia inizia a diventare città quando chi vi abita la sente come casa propria e, come tale, si prende cura di essa. Così è dell’uomo, della donna e di ogni creatura che naviga sotto il cielo. Che la periferia sia entrata poi nell’esame che definisce “maturi” i nostri ragazzi, è una sorpresa che tanto somiglia ad un imbarazzo. Quella che nasconde un invito quasi insperato: riscoprire la fragilità come occasione di maturare un sogno diverso d’essere uomini e cittadini. In un tempo nel quale in periferia torni a battere «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Dante, Paradiso XXXIII).

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