20130423 denaroOttantamila euro. Il debito contratto con lo stato. Molto di più il credito, dovuto a fatture non pagate. Per anni e anni. Testimonianza imperitura di un apparati vecchio, obsoleto, dai meccanismi farraginosi, complessi e forse anche mal oleati (questo viene da pensare, quando si analizzano i risultati!).
Perché il solo pensare che qualcuno (e non è qualcuno, ma sono tanti, tantissimi!) rischi addirittura la chiusura della propria azienda a causa delle inadempienze dello Stato, di fronte al quale il cittadino si trova sempre più solo, indifeso ed oppresso.
E pensare che si tratti di un imprenditore e non di un operaio mi pare una specificazione classista del tutto inutile. Un imprenditore non è un malfattore, un delinquente o un poco di buono: non è un losco individuo di strane abitudini da cui difendersi. Naturalmente, ci saranno persone migliori e peggiori, ma si tratta in genere di una persona che la responsabilità di un’azienda e che, per farla funzionare al meglio, ha bisogno del lavoro d alcuni dipendenti e – al contempo – ne garantisce un impiego. Non è – ovviamente – interesse dei suoi dipendenti perdere il proprio lavoro (che non è solo uno status sociale od economico, ma è forse un mix di ambo le cose: garantisce la propria realizzazione, ma anche la tranquillità economica per sé e per la propria famiglia), ma non lo è neppure per chi è proprietario dell’azienda. Ecco perché chi amministra la propria ditta in modo autorevole e intelligente considererà la possibilità di licenziare anche solo alcuno dei propri lavoratori solo come ultima ed extrema ratio, da perseguire solo nel caso in cui non ci sia altra opzione disponibile.
Come spesso accade, infatti, la soluzione intrapresa dall’industriale è quella di prendersi un rischio più grande delle proprie forze, sfidando un nemico più grande di sé in una lotta impari, per la propria e altrui sopravvivenza. Solo così può essere descritta. Infatti, di fronte alla scelta tra non pagare lo stipendio ai propri dipendenti e pagarne l’IVA, un imprenditore ha scelto – con decisione – la seconda opzione a sua disposizione.
Scoperto dalla finanza, è stato inizialmente condannato, salvo poi essere stato considerato in buona fede: pur dovendo in seguito pagare l’imposta, non incorrerà in alcuna sanzione penale.

Forse è poco, forse è molto. A me dà l’impressione che – nel suo piccolo – sia una rivoluzione, perché è veramente raro che la magistratura emetta una sentenza che non favorisca la pubblica amministrazione, in qualcuna delle sue forme. Chiunque vedrà che persistono delle disuguaglianze e delle incongruenze: basti pensare semplicemente al fatto che se l’imprenditore era indebitato, ciò era accaduto a causa dell’inadempienza della pubblica amministrazione, la quale nutriva nei suoi confronti un debito molto maggiore. Di fronte a ciò, la vicenda si ridimensiona comprendiamo il paradosso: non dovremmo stupirci perché l’imprenditore non è finito in carcere. Dovremmo – piuttosto! – indignarci perché, tutt’oggi, nel suo caso, così come in numerosissimi altri, le malefatte statali rimangono colpevolmente impunite.
La ricchezza che proviene dal lavoro non può essere considerato come una colpa, un peccato primordiale da estinguere a suon di tasse, sempre più salate, da pagare. Con la mentalità comune che pare giustificare questa brutta abitudine: “Del resto, i soldi non gli mancano, perché non dovrebbe pagare tante tasse?”. Già. Perché? Perché un imprenditore crea e garantisce occupazione e posti di lavoro, è artefice in prima persona dell’impegno a produrre qualcosa (diversa a seconda del settore di impiego), ma da lui passa la possibilità di far arrivare sul mercato prodotti sempre più raffinati, far avanzare la ricerca, le conoscenze e le possibilità con cui l’ingegno umano potrà soggiogare la natura per rendere migliore la vita sulla terra.
Il buon imprenditore non solo dà lavoro, ma tutela i propri dipendenti: da un certo punto di vista, senza dubbio gli è anche necessario. Come lo è per i dipendenti. Un filo invisibile ma tenace e imprescindibile lega tra loro capo e subordinati: se l’azienda è prospera, i suoi dipendenti avranno aumenti di salario e promozioni; se questi incentivi economici arrivano, i dipendenti stessi sono a loro volta motivati a dare il proprio meglio, alimentando un circolo virtuoso che – potenzialmente – potrebbe aumentare magari non la felicità, ma magari la tranquillità e il benessere sì.
Un applauso, dunque, a questo buon imprenditore, di cui diventa secondario ricordare il nome, oscurato dalla dimensione epica della sua vicenda, nella speranza che possa essere il primo di una lunga serie, disposto a difendere il proprio lavoro e i propri lavoratori con le unghie e coi denti dalle tenaglie del Fisco!


Fonti:

Il Gazzettino
Corriere delle Alpi

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