Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

viacrucis

E’ uno dei pochi posti al mondo dove poter contemplare la “via crucis” nel momento in cui diviene “via lucis”, lo spiazzo dove la Croce si trasforma in un barlume di luce per chi nella vita s’è assuefatto ai tempi lunghi della galera, a causa delle ferite impresse e di quelle ricevute. Nel carcere di Rebibbia ieri sera la Chiesa di Roma ha celebrato la Via Crucis con i suoi detenuti, uno splendido gesto di riconciliazione sulla scia della visita natalizia di Benedetto XVI. Nel silenzio di ogni patria galera in questa settimana santa sparuti gruppi di cristiani sulle orme di Cristo s’inerpicheranno lungo la salita che porta al Calvario, diventando a loro volta Cirenei di chi è caduto lungo l’avventura della vita. E’ caduto tre volte sotto il peso della croce l’Uomo di Nazareth: son caduti più volte sotto il peso dei loro crimini coloro che delle celle hanno fatto il loro punto di osservazione del mondo. Eppure al pari di Cristo pure a loro è offerta la possibilità di rimettersi in piedi e di tornare a splendere come protagonisti della loro storia. Perchè il sogno di Dio è rimasto quello sin dagli albori della storia sacra: non la morte del peccatore, piuttosto la conversione e la vita.
E’ la Via Crucis del “buon ladrone” che come nessun altro personaggio evangelico c’è di consolante ospitalità nel ventre del carcere: un’intera esistenza criminale cancellata con un solo moto di puro amore per aver creduto davvero di morire al fianco del Re. E’ il mistero della Grazia che approfitta della mancanza della virtù per riaccreditare di speranza il cuore dell’uomo, per fare di un brigante il compagno di viaggio di Cristo all’ingresso del Paradiso. Accompagnare Cristo con la preghiera rauca e poco melodica di chi abita nelle celle è poter assistere al prodigioso duello tra la Vita e la Morte, è stupirsi di come i fili del bene s’intreccino inevitabilmente con i fili del male, è credere che esistono gli uomini malvagi ma che quelli infelici sono molti di più. E’ fare esperienza di quella “felice colpa” che canteremo nell’Exultet la notte del Sabato Santo che attesta la riconciliazione più bella offerta da Dio: far esperienza della sua misericordia attraverso il dramma del peccato e della caduta. E’ nello sguardo affaticato e misterioso di chi delinque ch’è ancor oggi possibile scrutare quel bozzetto evangelico nel quale la zizzania fastidiosa è lasciata crescere in mezzo al colore dorato del grano. Perchè senza l’esperienza del limite forse qualcuno non avrebbe mai avvertito nella pelle il brivido della redenzione. “Ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno” (Lc 23) – sussurra il buon ladrone all’Uomo della Croce. Non è la richiesta di un’amnistia immeritata e nemmeno il tentativo di rubare uno scranno in Paradiso: è il semplice bisogno di sapere d’aver un cantuccio nella memoria di Cristo quando entrerà in quel Regno a lungo evocato quaggiù.
Contemplare la Croce di Cristo da dietro le sbarre è credere che una vita intera si può giocare in pochi attimi, basta riempirli di cose grandissime: il pentimento per la colpa commessa, la convinzione che la morte è la porta d’ingresso per l’Eterno, la certezza che il Crocifisso è l’innocenza derisa per ridare speranza al mondo. Basta un attimo e il bandito fuorilegge diventa un’ostia che brilla nell’oscurità del Calvario come certezza che “tutto è possibile a chi crede”. Il silenzio delle carceri racconta di Via Crucis quotidiane che divengono preludi di inaspettati mattini di Pasqua: perchè a seguire Cristo nel ludibrio delle galere si scopre che l’uomo è capace dei priù grandi crimini ma anche delle più inaspettate risurrezioni. Fino a costringere il cristiano a diventare non solo un cireneo della Croce ma anche un cireneo della gioia.
Il cristianesimo è tacciato d’essere la storia più ambiziosa della terra. D’altronde dove tutti vedono un seme marcire, la Croce aiuta a scoprire il germoglio di una spiga: la via della Croce diventa la via della Luce.

(Editoriale di Avvenire, sabato 31 marzo 2012)

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