Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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La Prima Lettura ci mostra Paolo nel pieno svolgimento della sua missione: dopo aver trascorso diverso tempo a Corinto, torna ad Efeso. In questa città, Paolo nota esserci diversi giudei, provenienti dalla diaspora; alcuni di loro avevano ricevuto il battesimo di conversione imposto da Giovanni Battista, ma, non avendo ricevuto la predicazione degli apostoli, non sapevano cosa fosse lo Spirito Santo. Paolo decide dunque di battezzare questi dodici uomini ed anche su di loro si rinnova il dono della profezia e delle lingue, che era seguito anche alla discesa dello spirito Santo sugli apostoli.
Non paiono particolarmente edotti sull’insegnamento cristiano, eppure è bastata la disponibilità alla fede affinché anche questi uomini potessero far parte di quel popolo di re, profeti e sacerdoti che nasce con la discesa dello Spirito Santo sui credenti.

 

La Seconda Lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, sottolinea il ruolo unico di Cristo, nella storia della salvezza: il Suo sacrificio è incomparabile agli altri. Per questo motivo, non è più necessario ripetere i sacrifici di animali, una volta, praticati nel tempio. Uno solo, una volta per tutte: Cristo, a motivo della Sua divinità, compie un sacrificio che “scalza” tutti gli altri e li rendi vuoti e privi di senso, a fronte della sua scelta, nutrita di libertà, di offrire la vita.
La religiosità pagana e, a volte, anche il nostro sentire religioso, basato su una reminiscenza atavica dei riti antichi, è portata a pensare alla divinità come un’entità che necessita del sangue dei sacrifici, per essere placata e consentire agli uomini di vivere in pace.
Dio, però, vuole per noi la vita e il male si insinua in questo rapporto come una lacerazione che ci separa da Dio. Dio è il primo a volere la comunione con noi e la nostra felicità: per questo, in Israele, ogni anno, si celebra il “giorno del grande digiuno”, Yom Kippur, che viene dedicato alla preghiera, al digiuno, alla lettura della Parola di Dio e a riti di espiazione. Avviene poi l’aspersione del sangue di animali uccisi sul coperchio dell’Arca dell’alleanza nel Santo dei Santi del tempio,dove solo il Sommo sacerdote entra, compiendo il gesto per sé e per tutto il popolo.
Il sangue, presso gli ebrei (come presso altri popoli antichi) è stato sempre pensato come il luogo della vita. Ecco perché è tramite il sangue che può avvenire la ricomposizione della lacerazione ed il perdono necessario a ritrovare la comunione con Dio.
Nella l’Eucarestia, celebrando l’offerta di Gesù, la rendiamo di nuovo presente, in modo incruento, su ogni altare del mondo. Il memoriale è più di un ricordo: è un ricordare, che riporta la Presenza: quotidianamente, in ogni luogo del mondo, dalla più sperduta delle cappelle alla più grande delle cattedrali, tra le mani del più indegno o tra quelle del più santo tra i sacerdoti di Cristo, da 2020 anni, il miracolo si rinnova. In un pezzo e in un calice di vino ed acqua, Cristo si fa presente, in mezzo ai suoi. Non importa quanti siamo. Bastano due o tre, perché Cristo stia in mezzo ai suoi.
Una sola cosa importa: il desiderio di essere in comunione con Lui, di accettare la Sua signoria sulla nostra vita, perché Lui possa trasformarla, vedendo quei dettagli che a noi sfuggono, aprendo quelle vie che lui solo può sapere perché “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” (dice il Signore, nel libro di Isaia).
C’è un’immagine che è bello trattenere, di questa lettura: parla di Cristo come Sommo Sacerdote, costruttore della salvezza, tramite una “tenda più grande e più perfetta, non piantata da mano d’uomo” (Eb 9, 11). Quest’immagine può far pensare alla nostra vita: può essere più grande, più perfetta, solo se lasciamo fare a Dio: naturalmente, non è sinonimo di tirare i remi in barca, mettersi le pantofole e chiudere bottega. È – piuttosto – l’invito a fare un passo indietro, provando a guardare al mondo (a partire dalla nostra casa e famiglia, innanzitutto) ed a noi stessi non più con il nostro sguardo, ma con quello di Dio. Provare, almeno ogni tanto, a toglierci dal centro e domandarci cosa Dio possa vedere nei nostri progetti e se – davvero – siano in linea con il Vangelo. A volte, potremmo avere sorprese. Lasciamoci sorprendere! Accettiamo che non tutto vada come avevamo pensato noi, ma che è possibile fare qualcosa di diverso, con la nostra vita.

Nel Vangelo che la liturgia ci propone abbiamo un esempio lampante di qualcuno che ha saputo fare spazio a Dio, senz’arrendersi alle lusinghe del mondo o cedere alla glorificazione personale.
Sappiamo che alcuni dei discepoli di Gesù provenivano dal gruppo di discepoli del Battista. Sappiamo che una moltitudine immensa raggiungeva il fiume Giordano per farsi battezzare, in un battesimo che era segno della volontà di conversione: tantissimi venivano per vedere il “famoso Giovanni”, quello che mangiava miele e locuste ed era vestito con pelli di cammello. Sappiamo che erode lo incarcerò per la sua intraprendenza di rimproverarlo per il concubinato, ma sappiamo anche che, senza una promessa avventata nei riguardi di Salomé e di fronte alla sua corte, probabilmente non lo avrebbe neppure fatto giustiziare, per una sorta di rispetto, unito al sospetto che potesse davvero essere un profeta, come in molti sostenevano.
Insomma, tutto quello che sappiamo di lui ci parla di una persona in grado di suscitare interesse, curiosità, a volte persino riflessione; una persona che, con il linguaggio di oggi, probabilmente definiremmo carismatica. In grado di arringare le folle, generare consensi, infiammare i cuori, persino portare all’azione. Una persona di cui qualcuno dice di sentire la mancanza e che, anzi, servirebbe ai nostri giorni, così orfani di un personaggio in grado di generare un simile interesse.
Eppure Giovanni Battista colpisce perché, pur essendo quel personaggio carismatico che sicuramente è, riesce a dire, di fronte ai propri discepoli: «Ecco l’agnello di Dio».
Non millanta credito non proprio. Non prova a legare a sé con l’inganno; i tanti discepoli che lo attorniano, sono nutriti dalla libertà di lasciarlo. Di più: i discepoli del Battista sentiranno, il giorno seguente, lo stesso epiteto e decideranno di seguire: nascerà in quel frangente il primo incontro (quello delle quattro del pomeriggio) tra Giovanni, Andrea ed il Maestro (Gv 1,35-42).
Giovanni Battista rende testimonianza di quanto avvenuto nel Battesimo di Gesù e marca le differenze. Invece di approfittare del consenso ricevuto dalla folla, inizia già a costruire la via per l’ascesa del Figlio di Dio, che coinciderà con la propria discesa (e morte).
Probabilmente, nell’incontro al Giordano, può avere il primo sentore di come procederanno le cose. Stupisce, quindi, la consapevolezza della sua inerzia. Sa di non dover essere innalzato. Enormemente compreso nel proprio ruolo, accetta di essere a servizio del Regno dei Cieli, ma dalle retrovie, senz’alcun riconoscimento.
Forse, un po’ tutti dovremmo imparare dal suo atteggiamento perché, se ci scrutiamo nel profondo, ci rendiamo conto di come, molto spesso, anche se, a parole, diciamo di non volere “il primo posto”, quando non ci è riservato, mastichiamo amaro e tendiamo a vedere complotti universali contro la nostra persona , anche quando ciò non è vero.

 

Rif: letture festive ambrosiane nella III Domenica di Pasqua, anno A (Atti 19, 1b – 7; Ebrei 9, 11- 15; Gv 1, 29 – 34)

Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: Pixabay

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