Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

periferia

Come un acquazzone in piena estate o come il più prevedibile degli annunci: nel breve battito di qualche ora, la città di Roma da “Caput mundi” diventa in mondovisione “Kaput mundi”. E’ lo svelarsi di un incubo, l’angoscia di una truffa diventata sistema, la rabbia di un’impotenza che fa sentire i più in balia di nessuno. A colpire non è tanto la corruzione dilagante, quanto ciò che sta all’origine dell’accaduto. La banalità sciocca e lercia di chi, da perfetto uomo di cartapesta, ride e irride ciò che nel mondo è debole e funestato: «Speriamo che il 2013 sia in anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione socialee» – scrive Salvatore Buzzi al suo gancio dentro le stanze del potere. Un messaggio che rimanda ai tragici fatti dell’Aquila quando, nel mezzo di uno sisma maledetto, c’era chi gioiva sotto le lenzuola: «Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto», disse in una telefonata il costruttore De Vivo Piscicelli al cognato.

E’ tutto un mondo che va in frantumi: i poveri divengono cagione di gaudio per le loro sofferenze, le distruzioni diventano preventivi di reddito, gli imprevisti più che essere scongiurati vengono augurati. Cominciare un anno augurando il peggio agli altri – d’essere profughi, di rimanere senza casa, d’essere sopraffatti dall’immondizia – è forse il vero specchio di ciò che i latini concentrarono nella stringatezza di un proverbio: «Mors tua vita mea» (“morte tua, vita mia”). Un proverbio che quando tocca la vita diventa storia. Storia di barbarie, di follie e di disgusto. A casa nostra.
E’ l’oltraggio della promessa: una parolina esile, delicata, gracile. Tutti le s’aggrappano per farsi belli, per attirare lodi e consensi, per strappare voti e applausi. Appena il tempo d’essersi gonfiati, e la promessa diventa delusione, la peggiore delle delusioni: l’illusione. La percezione d’essere stati abbindolati per l’ennesima volta, raggirati come degli imbelli ai quali si offre ospitalità per poi chiedere come riscatto la vita. Promesse che offendono, le solite promesse: dare dignità a chi è profugo, immigrato, sfollato, foresto. Anche carcerato. C’è chi ci crede per davvero, salvo poi fare i conti con la realtà, la più triste delle realtà: non bastava la situazione d’indigenza, serviva pure lo sfascio della loro dignità. L’ingrassarsi e l’ingrossarsi alle loro spalle per confermare la più sibillina delle supposizioni: a nessuno interesserà mai cancellare la marginalità, dal momento che da essa ci si può arricchire come con nessun’altra delle situazioni. Arricchirsi sulla pelle di chi è scappato dalle grinfie della morte, su chi ha perso la case e il senso di protezione, sullo sguardo di chi si è imbarcato per rimettere in moto la speranza. Su chi ha sbagliato, sta pagando e vorrebbe scontare i suoi giorni lasciandosi rieducare: che senso ha, però, rieducare gli sconfitti se poi ad essere maleducato per primo è lo Stato che li ha condannati all’isolamento? I mulini a vento di don Chisciotte sono ancora là, statuari.
Nella solidarietà c’è anche un’altra Italia. Anche lei, però, paga ingiustamente il pegno di un sospetto dilagante: che i poveri invece che essere serviti siano diventati dappertutto fonte di servizio per i nuovi faraoni paranoici. Non bastava la schiavitù, era necessaria la beffa: una doppia schiavitù per gonfiare la pancia di chi, sgrammaticato, confonde il Cielo e la solidarietà con la sua pancia e i suoi piedi. Rimane un’unica consolazione sopra le macerie di questo banditismo dilagante e comprovato: che i poveri, da sempre, hanno tanta memoria. Quella memoria che non è vendetta, tanto meno cattiveria. E’ semplicemente testimonianza: la testimonianza di chi, povero, in realtà altro non era che Dio vestito in borghese. Se ne sono fregati di Dio: è l’inferno.

(da Il Mattino di Padova, 14 dicembre 2014)

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