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Dire la verità, quante volte ce lo hanno raccomandato fino alla nausea, ma rigorosamente solo finché eravamo minorenni? Sì, perché oltre quell’età pare ormai evidente che la verità non sia più un pregio, ma un pericoloso e scomodissimo difetto, che va assolutamente mitigato quando non eliminato clamorosamente, in nome dell’impero del politically correct!

«La verità è una sedia scomoda, sulla quale pochi hanno il coraggio di sedersi»
(Paola Meloni)

Mai definizione fu più azzeccata, nella sua mordace sinteticità. Verità, tanto decantata quanto accuratamente evitata. Soprattutto in quelle occasioni in cui si rivela controproducente per la tranquillità personale. È impegnativa infatti quella sana inquietudine umana e culturale, per la quale non dovremmo avere il cuore in pace di fronte alle menzogne, a maggior ragione, quando si tratta di realtà storica, ampiamente documentata e documentabile, irriconoscibile e negabile solamente agli occhi di chi si rifiuta di cercare, capire, vedere, ascoltare ed osservare e preferisce invece adagiarsi su falsità di comodo che gli consentono di dormire sonni tranquilli, evitando di mettere in discussione le proprie granitiche, seppure infondate certezze.
Peccato però l’aver fatto i conti senza l’oste. Il premier turco ha senza alcun dubbio messo in atto una pessima strategia comunicativa. Si tratta di una tragedia umanitaria incalcolabile, che tuttavia era sostanzialmente rimasta sotto silenzio per anni interi. Commemorazioni immancabili per la Shoah, qualche commemorazione più recente c’è stata persino per le foibe. Ma per la strage degli armeni, perseguitati ed uccisi in due ondate (la prima intorno al finire del XIX secolo, la seconda nel periodo precedente la prima guerra mondiale, che va dal 1909 al 1915) sembra non esserci alcuna memoria. Fino ad ora, almeno.
È bastata una citazione papale, in piazza san Pietro, a risvegliarla e a far fioccare speciali e reportage su stampa, riviste cartacee, giornali, televisione, telegiornali, ma soprattutto sul web. Non c’è che dire: complimenti al tempismo con cui è stata colta la palla al balzo, dimostrando che la strategia turca è stata fortemente controproducente. Niente di più sbagliato che contraddire qualcosa che non si condivide. Il negazionismo è l’arma in più che finisce alla tempia di chi la usa. Che se ne parli male, purché se ne parli: è una regola aurea che si applica anche in questi casi. Se ci fossimo dimenticati del genocidio armeno, come non era difficile pensare (visto che non è che si siano profuse commemorazioni di questa tragedia, dal 1915 in avanti, e ancora adesso rimane piuttosto magra la lista dei Paesi che lo hanno riconosciuto in modo ufficiale), ci ha pensato il Papa a svegliarci. Se non fosse bastato il suo intervento, a sottolinearlo ci ha pensato proprio l’accusa, rivolta al Pontefice, di essere un calunniatore per le parole spese in favore degli armeni, arrivando addirittura a ritirare l’ambasciatore dalla Santa Sede. La zappa sui piedi, insomma. Perché di fronte a questo scalpore, credo fosse difficile per chiunque non farsi qualche domanda e andarsi ad informare, anche solo per il gusto di dirimere la querelle e comprendere chi menta: cosa, non particolarmente difficile, nel mondo occidentale, dove praticamente chiunque ha accesso ad una risorsa così strabordante di notizie fuori controllo, com’è internet (una risorsa quanto mai incompresa: dalle potenzialità in continua espansione, rischia di rimanere intrappolata in un cliché di “passatempo” adolescenziale o, al massimo, alternativa al marketing tradizionale, mentre – al contrario – potrebbe essere l’arma segreta per una rivalsa di una cultura più profonda e più ampia, non più schiava di quel mecenatismo che ha mummificato buona parte della cultura che è giunta fino a noi).
Cooperatores veritatis: il nome scelto per il pontificato di Benedetto XVI. Niente di più profetico, niente di più impegnativo sarebbe mai stato immaginabile. E ora il testimone dobbiamo raccoglierlo noi, impegnandoci in prima persona nell’alzare la testa di fronte a chi preferisce nasconderla sotto la sabbia, per infangare la realtà, pur di non correre il rischio che chiede la verità, quando è scomoda e difficile da guardare.
Di certo non sono d’esempio politici capaci di uscire con frasi infelici, come: “non è opportuno dare una verità di Stato”. Che, in sostanza, non lascia spazio a troppe arrampicate sugli specchi: è un calar le brache, goffamente mascherato tramite odiose espressioni politically correct; un trucco che, però, ahimè, mostra impunemente tutti i suoi limiti, perché si dimostra come il vestito del re nudo, che può ingannare solo chi sceglie di lasciarsi ingannare. Perché, no: non ci sono verità di stato. Ma, dico io: c’è bisogno di dare aggettivi alla verità? O la verità è semplicemente ciò che è vero? Se è ciò che è vero, è – molto semplicemente – qualcosa che non può essere negato, salvo rimediare la grande opportunità di fare la figura dello struzzo, allora conviene prendere a due mani il coraggio, se serve, e guardare negli occhi anche l’atrocità che la Storia ti offre.

«Senza memoria non c’è futuro, lo sguardo anziché sollevarsi s’inchina fino a terra, s’incolla a un presente impoverito, così piccolo da non poter essere misurabile. Un presente che per perpetuarsi rimuove il confronto con il nostro passato e con gli altri – cioè con la storia e con il mondo – è davvero poca cosa. E, poi, a guardar meglio, ci si rende conto che, senza memoria, anche il presente ci sfugge. Cos’è, infatti, il presente? Non può essere soltanto questo istante che senza il soccorso di una foto, di un click, è già cancellato prima che io riesca a fermarlo, a capirlo. Per poter pensare il presente devo dilatarlo, farlo durare quanto basta affinché acquisti un certo spessore, una certa consistenza. Pensare, al novanta per cento, significa ricordare: il pensiero è pensiero nel tempo e del tempo, è memoria che si fa invenzione o scoperta, progetto della ragione. Senza memoria, anziché servirci del passato per cavarci dai guai, ne restiamo prigionieri» (Claudio Martelli)

Cara Turchia, candidata ad entrare in un’Unione Europea che sta perdendo i propri valori come Pompei sta perdendo i suoi tesori (lentamente, ma inesorabilmente), ci sono cose necessarie a livello personale tanto quanto lo sono a livello comunitario e societario. Non è possibile andare avanti se le basi non sono solide, non si può guardare avanti senza aver fissato anche quelle verità del passato che sarebbe bello poter dimenticare e cancellare con un colpo di spugna. Ma non c’è cicatrice che sia inutile: se il passato è un’opportunità per non ripetere più quegli errori in futuro, niente porta più vergogna dell’incapacità di accogliere la verità e di guardarla, anche quando provoca imbarazzo di Stato.

 


Link per un approfondimento:

Wikipedia
Il fatto quotidiano
Sky
Dagospia

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