Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

rondine
Era d’estate, una delle estati nella stagione della mia università. Oggi non ricordo nemmeno perchè, nella casa in montagna, ci fosse quel libro: forse l’avevano dato come omaggio di qualche quotidiano locale o, probabilmente, apparteneva a quei libri che si mandano a morire lassù, nelle case in montagna. Ricordo solo d’avere letto il titolo – Ragazzi di vita – e di essermi incuriosito per quell’abbinamento che a me suonava particolarmente bello: i ragazzi e la vita, ragazzi di vita. Una vita di/da ragazzi. E’ un libro scritto da Pier Paolo Pasolini: ammetto di non ricordare granchè di quella lettura. Però, in tutte le cose ci sta nascosto un però, un’immagine non mi ha più abbandonato dopo quell’estate: l’immagine di quella rondine che il Riccetto, uno dei protagonisti del romanzo, salva dal rischio di annegamento. E’ una pagina che rileggo sempre con affetto, e quando ci saluteremo non vi sarà difficile capire il perchè.

 «Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto le ali. Poi senza dire niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. (…) Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba della riva, con la rondine fra le mani. “E che l’hai servata a ffà” gli disse Marcello “era così bello vedella se moriva!” (…) Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere. Il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre».

 Quante volte, varcando i diciassette cancelli che proteggono il paese del nostro carcere di Padova, sento risuonare in me quell’espressione: «E che l’hai servata a ffà (…) Era così bello vedella se moriva!». Riferita a quella rondine salvata dal Riccetto. Riferita, però, anche a quei volti col passaporto di ferro-e-cemento che popolano le patrie galere della nostra nazione, le celle della nostra parrocchia. Nel testo di Pasolini, i ragazzi di vita sembrano covare indifferenza: qualcuno ridacchia, un altro canticchia, altri se ne infischiano. Qualcuno sogna di vedere come fa la rondine a morire annegata. A me ricordo che mi colpì la figura del Riccetto: vi lessi una ricchezza umana che, però, veniva sacrificata in nome di un ruolo che quel gruppo gli aveva tributato. Nella sua anima il lettore trova un chè di diverso: una ricchezza umana accuratamente piegata sotto la scorza da duro di quel borgataro romano. Alla fine lui, quella rondine, la salva. Ed quel gesto che rende possibile la contemplazione di un volo, del volo di una rondine. Il testo continua spiccando il volo: «Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto non ormai non la distingueva più dalle altre».

Tantissime volte mi son fatto la domanda: “E’ proprio così bello vedere se muoiono coloro che si sono macchiati, da giovanissimi sopratutto, di qualche reato? O, forse, diventare grandi è imparare a seguire la vita laddove ella stessa ci conduce, sovente per strade che nessuno di noi avrebbe mai immaginato di percorrere? C’è uno scrittore che a me piace tantissimo, Christian Bobin, che ha lasciato scritto tre righe che sono di una bellezza micidiale: «La vita riesce a scovarci anche quando nessuno sa più dove siamo, neanche noi. Per quanto lontani ci troviamo, essa si apre sempre un varco fino a noi. Per quanto grande sia la nostra volontà di evitarla, di fuggirla, rifugiandoci nel lavoro, un impegno, in qualcosa di assorbente, essa arriva comunque e si prende gioco di noi, della ingenuità dei nostri progetti, della sapienza dei nostri calendari» (C. Bobin, La merveille et l’obscur).

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Raffaele è una delle 150 persone che la domenica di Pentecoste hanno accettato la sfida di varcare le porte ferrose di una patria-galera. Rincasato, ha preso carta e penna e ci ha fatto dono di parole partorite dallo scontro con quelle altre parole: quelle delle persone detenute. Con quell’altra Parola: quella che, parlando, ammutolisce.

«Pur non essendo il mio primo contatto con la realtà del carcere di Padova, l’esperienza della Pentecoste nel “cenacolo” del carcere di massima sicurezza Due Palazzi, domenica 09 giugno 2019, rimarrà indelebilmente impressa nell’anima. Le parole non riescono a rendere completamente comprensibile quanto vissuto; questo non può impedirmi di esprimere una piccola parte delle riflessioni scaturite. In realtà soffriamo tutti, chi più chi meno, della sindrome di Tommaso, si proprio colui che non credette e che trovatosi, successivamente, innanzi a Gesù non mise in atto ciò che aveva con decisione affermato prima; non fu necessario poiché scaraventato oltre i sensi, dalla percezione profonda, entrò in sintonia istantanea con il suo Dio e suo Signore.

Non mi sono mai fatto condizionare dal ruolo diverso che nell’assetto societario gli umani rappresentano, ho cercato sempre di scorgere le caratteristiche della persona prima di ogni altro aspetto; ho trovato e trovo conferme che quelle caratteristiche hanno fatto, fanno e faranno sempre, la differenza. L’atteggiamento con il quale mi sono avvicinato al momento di oltrepassare il primo sbarramento è stato di ravvivare la consapevolezza che la detenzione non è cosa solo fisica. “Detenuto” da tenere, trattenere presso di sé, in un luogo; tipico il carcere (recinto chiuso), prigione, dal greco arkeo (rinchiudere, serrare, trattenere) legato al composto co-erceo (cingere, circondare, reprimere, costringere), fino al termine coercizione spessissimo nascosta nella lusinga. Il pensiero è andato alle innumerevoli detenzioni psicologiche prodotte dalla più variegate forme di dipendenza che il cosiddetto progresso ha notevolmente implementato. I passaggi attraverso gli sbarramenti successivi mi hanno rinfacciato le mie, sia quelle superate sia quella più difficile ancora da superare. Devo ammettere che ho cercato di cogliere, attraverso il non verbale, le espressioni degli altri partecipanti esterni. Ero curioso di vedere rappresentato lo stupore inevitabile sui volti di coloro che approcciavano per la prima volta ad una esperienza così forte, perchè ciò che viene definito il “senso comune” gioca la sua parte.

Ognuno di noi nasce all’interno di una certa cultura, di un gruppo di persone che condividono un certo sistema di valori, che sono accomunate da un fondamentale consenso su come sono e/o dovrebbero essere le cose. Cultura ed istruzione contribuiscono pesantemente ad imporre al territorio mentale confini artificiali che definiscono i limiti di quello che è il “senso comune”. La nostra vita mentale rimane così confinata all’interno della regione mentale definita dalla nostra cultura “senso comune”; chiunque cerchi di
travalicare questi limiti non riuscirà più a rapportarsi con il proprio gruppo sociale; sarà catalogato, combattuto, ridotto al silenzio, torturato psicologicamente, espulso. In questo condizionamento solo apparentemente noi siamo liberi di pensare, immaginare e desiderare ciò che vogliamo; questa prigione psicologica è ben più potente di qualsiasi prigione fatta di sbarre metalliche, cemento e mattoni, in quanto di essa non siamo consapevoli: non la percepiamo, non la vediamo, tanto meno possiamo sentire la necessità di evaderne. Spesso forti traumi fisici o shock emotivi riescono a scaraventarci fuori di questi bacini proiettandoci in remote ed inesplorate regioni della nostra psiche, dalle quali chi torna indietro incolume, il più delle volte non potrà più guardare il mondo con gli stessi occhi di prima. Accade anche che lo stimolo all’esplorazione di nuovi territori mentali, che da sempre sono alla base della spinta creativa umana, del mutamento di prospettiva interiore che è il vero motore dell’evoluzione, preceda e sospenda esperienze fortemente traumatiche.
Dietro i nostri occhi c’è qualcosa di più importante di ciò che sta davanti; l’ho colto negli sguardi degli agenti di polizia penitenziaria che ho incrociato, senza distinzione di sesso. A loro come a tutti i volontari e a don Marco dedico questa affermazione di James Hillman: «La natura della propria vocazione non può essere compresa con mezzi fisici, ma solo con un pensiero indagatore, un sentimento aperto al sacro, un’intuizione evocativa ed un’immaginazione ardita». Nell’ascolto delle testimonianze , oltre la forte sofferenza emotiva, espressa decisamente o a fatica frenata, nel mettere a nudo vuoti vertiginosi, fragilità, rabbia, violazioni, crimini, con compassione ho colto una grande verità: quando il tuo atteggiamento si predispone ad amare incondizionatamente diventa possibile per chiunque riconciliarsi con se stesso, con la parte sana di sé, con la propria sacralità! Vedere, sentire, toccare questo nell’altro polverizza ogni teoria e pregiudizio.
Anche lì, in quel luogo blindato, domenica ho percepito l’amore vincere!»

La vita riesce sempre a scovarti, anche quando nessuno sa più dove siamo, nemmeno noi. Se non è vero! Come darle torto? La rondinella: “Ma non dovevate buttar-via la chiave? Perchè non l’avete fatto?”
Maledetta-benedetta rondine!

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