Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pecoraVita da pecore. Simbolo dell’imperitura incapacità di ragionare, di individuare la mèta, di tessere strade ardite, sconosciute, di fantasia. Le pecore in chiesa non contano nulla. Intendiamoci bene: non si chiede di trasformare in ovile il presbiterio, il tabernacolo in mangiatoia, i banchi austeri e millenari in imballaggio per la paglia. Si chiede solo di dare a ciascuno il suo! E, allora, come mai oggi tutti dicono che è la “domenica del buon Pastore” e non la “domenica delle pecore”? Non si tradirebbe di certo il respiro del Vangelo che, oggi come non mai, parla dell’Ovile con la stessa delicata architettura di cui parla del Tempio. E nell’ovile ci sta l’uomo, il pastore per eccellenza: realtà sacra al viso di Dio. Ovile come Tempio: altro che dormitorio e deposito di pecore! E’ zona d’incontro, di riconoscimento, di ritorni graditi. Aspettàti. Poggi l’orecchio sul balcone del Vangelo e sembra quasi di sentir ritornare il comando diretto e divino sceso su Mosè rannicchiato sulla cima del Sinai, di fronte ad un Fuoco che brucia non bruciando: “Cavati i sandali, perché il luogo che calpesterai è sacro” (Es 3,6). Quasi a dare le istruzioni per l’uso qualora si volesse tentare la scalata al concorso di Pastore, il Vangelo sembra raccomandare di entrare in punta di piedi!
Non solo! Anche in punta di voce! Magari in italiano non suona bene, ma la grammatica celeste s’addebita volentieri concessioni linguistiche a piacimento. Strano mestiere quello del Pastore. Perché dove non arriva il bastone, entra in gioco la voce. Che a noi oggi non dice più nulla. O poco più che il ricordo di un suono che, al calar della giornata, ci faceva riconoscere i passi di papà quand’era ancora lontano dalle nostre braccia di bambini. “Le pecore ascoltano la sua voce; egli chiama le sue pecore per nome e le conduce fuori”. Esperto conoscitore della natura, l’Uomo di Nazareth: chissà mercenari, banditi e traditori che avrà fotografato nei lunghi e spensierati anni di giovinezza tra le colline di Palestina. Tutti uguali: urla, bastone e apprensione. Ma s’accorse subito che era il timbro della voce a tratteggiarne l’intenzione. Troppi pastori si lamentano che il gregge non dà loro retta. Troppi greggi si lamentano di non avvertire la voce del pastore.

Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei.(cfr Gv 10,1-10)

Questione di interferenze? O abbiamo decretato troppo anticipatamente la morte della funzione vocale? Risulta da un viaggio appassionato e appassionante in compagnia di Pietro (il cui resoconto la prima lettura ci regala) che la gente, dopo averlo sentito parlare, “si sentì trafiggere il cuore”. Sentito parlare: non visto azionare, manovrare, progettare! Parlare! Come in quel lontano meriggio che rese emozionante il viaggio di due viandanti sulla strada in direzione di Emmaus! La voce: cioè il timbro, la passione, la convinzione. La certezza, la persuasione, la sicurezza. E allora è normale che scatti l’azione: “Che cosa dobbiamo fare, Pietro?” Proprio quello che succede nelle nostre celebrazioni. A omelia sepolta, la gente si guarda in faccia e si chiede: “ha finito?”. Nascondiamoci dietro un mal celato tentativo di giustificare il cambiamento con il contesto culturale odierno. Come se Pietro, a quel tempo, passasse tutto il giorno a trastullarsi applaudito sulla spiaggia di Cafarnao, con gli Ateniesi a spalmargli la crema solare tra un tuffo dalla barca e un cocktail ghiacciato al chioschetto della suocera. Pensiamo pure così: ma non lamentiamoci se un gallo si sta avvicinando per suonarci la “sveglia”.

All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».
E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». (cfr At 2,14.36-41)

In punta di voce, oltre che di piedi, raccomanda il Vangelo. Perché le pecore corrono se sentono una voce che le fa correre. Tra le navate ci son parole che – direbbe il mio teologo preferito – sono come “farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari” (K. Rahner). Parole distrutte, logorate dall’uso, incapaci di scaldare il cuore, d’emozionare il respiro. Parole che suonano come un invito ad uscire dalla chiesa e farti conquistare da quattro calci al pallone. Pastori che hanno il volto spento, il sorriso di ghiaccio, la stretta di mano che allontana, il gesto calcolato, le parole pesate, lo sguardo spento, la bocca che mastica formule, l’atteggiamento ingessato. Mai un momento di debolezza, d’abbandono, di tenerezza. Mai un sentimento: di stizza, d’odio, di comprensione. Don uno. Don nessuno. Don centomila. Partoriscono parole scontate, prevedibili, riciclate, fotocopiate, rattrappite. Che si sentono obbligati di dire. “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”.
“Ma lui è Cristo” – ti diranno. Cosa cambia? Lui per farsi riconoscere ha pianto, urlato e parlato. Gioito, tremato ed esultato. S’è commosso: per miseria, per amicizia, per profumi. Ha chiesto aiuto, attenzione, giornate. Ha mosso cuori, animi e cervelli. S’è buttato sulla tavola del mondo per incontrare, stringere, aiutare. Ha avuto paura. Ha chiesto vicinanza. E’ crollato. Per farsi riconoscere non s’è vergognato d’essere uomo!
E ci son parole che, quasi per miracolo, rinascono continuamente. Parole simili a delle conchiglie dentro le quali risuona la voce del mare. T’appoggi al loro eco e ti sembra d’entrare nell’Eterno. Chi le pronuncia – dopo averle declinate in ore di appassionato deserto – è come se accompagnasse il tuo mento a poggiarsi sul davanzale della storia. Son pastori che non si lamentano, che come Pietro dovranno rispondere ad una domanda che vale un attestato di stima: “Che cosa dobbiamo fare?”. Cioè la Parola ha smosso, ferito e agitato. Commosso, stupito e dilaniato. Alzato, abbassato, bistrattato. Che soddisfazione per il pastore: la pecora alza la schiena e vuol trovare la strada. Perché l’ha sentita trasudare dalle parole, dalle indicazioni. Le è nata la nostalgia del sentiero!
Il bastone assicura l’autorità. La voce offre l’occasione dell’autorevolezza.
La voce. Della voce. Alla voce. Con la voce. Per la voce. Colpa della voce. Nella voce. Dopo la voce. Verso la voce. Dalla voce. Attraverso la voce. Nel mezzo della voce. Grazie alla voce. Per colpa della voce. Aiutato dalla voce. Al tempo della voce. Voce stante.
Ma quale v(V)oce?

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