Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

periferia
Le sue parole hanno il sapore del genio, dunque dell’apparente semplicità, visto che il genio riesce ad intravedere la vita laddove tutti vedono non-vita: «Un architetto che non partisse dalla realtà per progettare sarebbe un cretino», ha riflettuto Renzo Piano. Sono anni che l’architetto genovese sta riflettendo sul concetto di periferia, è suo il “rammendo delle periferie”: è un verbo che rimanda al ricamo, a qualcosa di artigianale, all’ago-e-filo. Una visione assai diversa da quella geografica: la periferia è ciò che sta fuori dalla città, come se la città fosse coronata da una cinta di povertà e di non-attrazione. Una geografia che diventa sociale: un luogo dove, a differenza del centro-pedonale, abita il degrado e l’imbarbarimento. E’ la zona della decadenza: carceri, ospedali, centri di recupero. Più di un miliardo di persone nel mondo vive nelle periferie delle metropoli: tutti falliti? Abitandole ci si accorge che tutti i problemi di cui si discute, lì sono cose che accadono: la disoccupazione, la tensione, l’abbandono dalle istituzioni. E, accadendo, sanno generare un’energia creativa che diventa fucina di idee: «Amo la periferia più della città – scriveva Carlo Cassola -, Amo tutte le cose che stanno ai margini».
Il nostro modo di parlare tradisce la nostra non-conoscenza della periferia: “E’ finito in carcere!”, diciamo di una persona condannata. “E’ finito all’ospedale” diciamo di una persona ammalata. Come se il verbo “finire” comprendesse una sorta di epigrafe funebre. Quando, a ben pensarci, all’ospedale si inizia: io sono nato all’ospedale. Anche in carcere si inizia, non solo si finisce: qualcuno sta iniziando a vivere invece che sopravvivere, a lavorare, ad immaginare, sognare. Ecco perchè i creativi, tutta gente allergica alla ripetizione, scelgono le periferie per ispirarsi: lì c’è un battito capace di riaccendere la vita, la lotta per risolvere le sofferenze è un generatore di energia, fantasia, estro. Sono set-cinematografici naturali. L’istituzione, per natura, mal sopporta la periferia: chi sta al centro ha la responsabilità di mantenere l’ordine precostituito, chi sta ai bordi ha il dovere di provocare nuovi sbalzi. La Chiesa stessa deve la sua bellezza a città di periferia come Assisi, Siena, Lisieux, Pietrelcina: tutte città abbinate a nomi di persone a cui lo Spirito ha infuso il carisma profetico della scocciatura. «Non ingrossate la fila di quanti corrono a raccontare quella parte di realtà già illuminata dai riflettori del mondo – disse Papa Francesco – Partite dalle periferie, consapevoli che non sono la fine ma l’inizio delle città». Lì, dove l’uomo vive chiedendo spiegazioni al destino, è nascosto il brevetto per parlare al cuore dell’uomo: la realtà si capisce meglio dalla periferia, è il repetita-iuvant (inascoltato) del Papa.
L’istituzione si pensa il centro del mondo: per questo amo la periferia, quei sottoscala delle città, come le carceri, dove la vita scampa tra i tuguri e i rottami. Quando l’istituzione abbandona la periferia, il suo linguaggio diventa astruso: la politica parla il politichese, la Chiesa l’ecclesialese e danno risposte perfette a domande che nessuno, magari, si sta ponendo. E la gente non capisce più che cosa dicono, in chi credono, in che cosa invitano a sperare. L’istituzione, poi, si infuria perchè la periferia la snobba, le chiese si svuotano, le anime si addormentano. Non è mancanza di interesse nella periferia, è mancanza di vita nell’istituzione. Che è più boriosa che incapace: si scorda spesso di sciacquarsi la faccia nei rubinetti di periferie, dove la freschezza è di casa. Laddove i pensieri non nascono già-pensati come accade, troppe volte, in centro.

(da Il Mattino di Padova, 2 febbraio 2020)

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