Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

 

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Nell’antico mito greco Pandora, la prima donna, creata da Zeus, avrebbe avuto l’ordine di custodire un vaso senza doverlo mai aprire. Vinta dalla curiosità un giorno infranse il divieto ed ecco che, una volta sollevato il coperchio, uscirono da lì tutti i mali che si propagarono per il mondo. Sola, in fondo al vaso, rimase la speranza. Non fece a tempo ad uscire perché la donna richiuse il coperchio, spaventata da quello che aveva combinato.
Raccontato così, senza ulteriori spiegazioni, questo mito è di una crudeltà inaudita: i mali che affliggono l’umanità – malattia, vecchiaia, povertà… – non sarebbero altro che un macchinoso piano del padre degli dei per vendicarsi di chi gli fece un torto. Se invece proviamo ad approfondire e andiamo alla ricerca del significato originario della parola greca elpìs, non troviamo la speranza come prima voce nel corrispettivo italiano, bensì il termine illusione, intesa proprio come aspettativa vana senza fondamento e soprattutto senza traguardo. Da questo secondo punto di vista le cose cambiano un po’: l’umanità sarebbe stata comunque afflitta da una miriade di mali, ma almeno non sarebbe stata pervasa dalla cieca illusorietà che tutto si sarebbe sistemato in un batter di ciglia, senza provare a muovere un dito.
Anche nel cristianesimo, delle tre virtù teologali, la speranza spesso è quella più bistrattata. Fede e carità sono piuttosto ben comprensibili, ma come fare per togliere alla povera speranza quell’aura di vana illusione che l’accompagna sin dal mito di Pandora? Come fare per non confonderla con quel cieco ottimismo che cerca di convincersi che tutto andrà bene e nel frattempo aspetta che il miracolo cada dal cielo?
In tanti, troppi, confondono la speranza con lo stare ad aspettare che qualcosa di bello accada improvvisamente senza dover muovere un dito. Confondono la speranza con l’aspettativa che le cose migliorino da un istante all’altro con uno schiocco di dita.
A togliere ogni aura di immobilismo alla speranza giunge in soccorso la musica. L’unione di vibrazioni e matematica, che si esprime in svariate sequenze di note, suonate da una vasta gamma di strumenti. È uno dei linguaggi universali per eccellenza, comune a tutte le popolazioni del mondo di tutti i tempi e tutte le latitudini. In alcuni miti è addirittura un dono divino.
La musica fa capolino in molte tappe della vita umana, dalla nascita alla morte. Esprime ed evoca emozioni, si lega ai ricordi, è un sollievo ed una valvola di sfogo in momenti difficili attraversati dal dolore.
Ha accompagnato i due mesi della nostra quarantena: come dimenticare, per esempio, le struggenti note composte dal compianto Ennio Morricone che si sono propagate nel centro di una Roma deserta, mentre il resto del Paese piangeva i propri morti e lottava disperatamente per salvare il salvabile? È risuonata per le strade di Beirut, tra macerie, polvere e dolore. Giungeva da un pianoforte suonato da un’anziana signora, mentre tutto intorno era in frantumi.
A cosa serve? Hanno chiesto in molti, sia nel primo che nel secondo caso. Qual è l’utilità di questo intreccio tra musica e speranza, se morte e dolore non scompaiono?
Ci risponde dall’Antico Testamento il profeta Elia:

Ed ecco che il Signore passò. Dopo il fuoco, ci fu il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.” (1Re 19,13)

Né vento, né terremoto, né fuoco scuotono il profeta di Dio: sa che il suo Signore non è responsabile dei dolori che affliggono l’umanità. Dio non si trova nella catastrofe, non è il suo artefice. Infine ecco giungere il fruscio della brezza: sua è la delicatezza delle note che accarezzano la natura, come una musica suonata dal creato. È lì che Dio si fa presente, come compagno che infonde speranza al suo profeta e lo rinfranca, perché egli possa proseguire il proprio cammino.
La speranza, quindi, non è mai attesa immobile e sonnacchiosa, non è vana illusione che crede che ogni cosa si sistemi in un lampo. La pigrizia è una dote che non le appartiene. Ha invece la stessa dinamicità della musica, che si propaga e sfiora persone e cose. A cosa serve, quindi, è facile capirlo: si fa nostra compagna di viaggio, affianca i suoi passi con i nostri, non per far sparire ogni male, ma per affrontarlo insieme.

La musica di Ennio Morricone ed una Roma deserta

Beirut: musica e macerie

Fonte Immagine: Pixabay

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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