ping-pong

Accade come nel gioco del ping-pong all’oratorio. Quando la partitella sembra mettersi male, c’è sempre uno dei due giocatori che estrae la vecchia soluzione: “ancora due tre palleggi di riscaldamento, poi iniziamo a giocare sul serio”. In realtà la partita era già iniziata, ma siccome s’era messa male benvenga la soluzione più antisportiva: “facciamo finta non fossimo in partita”. Un po’ come quando torna alla ribalta l’accoppiata amnistia-indulto: tutti sanno che tale gesto di clemenza non risolve nulla, eppure lo si gioca sempre volentieri per cercare di fare finta che la partita vera – quella che mette in palio il grado di civiltà di uno stato – debba ancora iniziare. E’ l’aria che si respira in questi giorni, dentro e fuori le mura delle patrie galere: chi è dentro la decanta come fosse una litania che procura la salvezza a basso prezzo, chi è fuori la taccia come una delle bestemmie più ataviche. In realtà nessuna delle due voci sembra poter arbitrare imparzialmente la partita di civiltà: chi è dentro perché spesso dimentica che la misericordia non cancella la giustizia, chi è fuori perché sovente ama scordarsi che al condannato è sospesa la libertà ma non la dignità. Stavolta, però, l’Europa si è stancata di vedere sempre e solo gli “allenamenti”: da maggio 2014 non si scherza più. In realtà è da dodici anni che l’Italia è sorvegliata speciale (nonché plu-ricondannata) a causa dei suoi trattamenti disumani: non basta possedere una giurisdizione sublime, occorre farla propria nelle scelte del quotidiano. Che senso ha dunque da parte dello stato continuare a parlare di “rieducazione” quando lui per primo è recidivo nelle sue inadempienze?

La gestione di un’amnistia è un esame per l’intera società, non solo per la parte politica: se è vero che la concessione della clemenza spetta al parlamento, è alla società intera che spetta la parte più difficile, ovverosia fare in modo che tali gesti di clemenza non alimentino ulteriormente il senso di insicurezza della popolazione. Ecco, dunque, l’inaffidabilità (che non è sinonimo di inutilità, ndr) di tali proposte: senza un’adeguata preparazione – che significa una rieducazione di entrambe le parti – rischia di essere l’ennesimo “compitino per casa” che l’Italia fa per non prendere una nota sul registro dalla maestra Europa. Con la conseguenza che fra tot anni si ripartirà daccapo. Forse tra le due – amnistia e indulto – anche stavolta c’è la terza che gode: il lavoro. E’ stata la parola chiave della visita del ministro Cancellieri: l’ha toccato con le sue mani, l’ha visto con i suoi occhi, l’ha sentito con le sue orecchie. Far lavorare un detenuto – dentro e fuori il carcere – è forse la soluzione che riaccende la dignità di chi è dentro senza mettere a repentaglio la sicurezza di chi è fuori. Anche qui, però, la società intera è chiamata a mettersi in gioco perché il modo di ragionare che permea una comunità è la discriminante nella realizzazione o meno di un’idea. Quando Jeff Bezos iniziò ad immaginare l’avventura di Amazon (il più grande sito di ecommerce mondiale), si trovava nella città di New York. Riflettendo capì che per renderla possibile doveva spostarsi dall’altra parte dell’America: fu in un garage nei sobborghi di Seattle, infatti, che diede vita alla sua creatura. Bezos intuì ciò che era necessario per avere le condizioni giuste per partire: un modo di ragionare diverso da quello che respirava a New York.

Non basta dunque nemmeno il lavoro: è necessario un sussulto di umanità da entrambe le parti per favorire un modo di ragionare che permetta di salvaguardare la giustizia senza umiliare l’uomo. Impedendo all’Europa di tirarci le orecchie: quello era il tempo dell’asilo.

(Editoriale de Il Mattino di Padova, 16 ottobre 2013)

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