Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Ti conobbi quand’ero infante. Ma ancor oggi il tuo nome evoca lontane nostalgie e vecchi ammaestramenti. Ti trovai appostata all’ombra del campanile, quel campanile che dettava il ritmo alla mungitura delle vacche, alla polenta delle massaie, alle orazioni del vecchio curato, alle partite a briscola del nonno all’osteria. Che schedava il lento vivere della gente di paese. Quel mattino tenevi lunghe gonne, un piglio severamente tenero, uno sguardo che ti mostrava bella. Anche se per me eri vecchia. Quasi come la mia nonna. Era stata una notte piena di lampi, ma all’appropinquarsi dell’alba ricordo le tacite stelle: quelle del Pascoli poeta di cui mi parlasti anni dopo. Ma pure quelle che avvistavo oltre le silenziose malghe. O che parevano arcieri della guardia persiana a custodire la punta della torre campanaria. C’incontrammo in mezzo al cortile: tu con la tua valigia seria, pesante, usurata dagli incontri. Io con la mia cartella colorata e vuota, lo sguardo furbo e insonne e quella vivacità che mi valse la simpatia e l’ansia del tuo sguardo. Tu mi guardavi, io ti guardavo. Era il primo giorno di scuola: 18 settembre 1985.
Novelli pirati, salpammo in otto in quella classe che tu amavi raffrontare ad una nave. Tu, skipper navigata. Noi, novelli Ulisse che dell’eroe omerico ignoravamo l’esistenza, le prodezze, la genialata delle colonne d’Ercole. Ore e ore in tua compagnia: col grembiulino che tanto piace alla Gelmini ministro, col saccottino del Mulino Bianco per antipasto, armati di astuccio, quaderno e tatuaggi raffazzonati con i pastelli. Alla tua scuola imparai a scrivere "Marco Pozza", il nome del natìo paese, la data e il giorno. In stampatello, in corsivo, sempre più elegante. Con lettere che sembravano disegni d’alta architettura, tant’erano giganti. Ma che mi facevano sentire l’erede del Caravaggio pittore quando riuscivo a quadrarle, a tesserle tutte d’un fiato. Senza schiodare la penna per respirare. Tu sapevi di matematica, di scienze e di botanica. Di algebra, di lettere e di musica. D’arte, di romanzi e di teoremi. Di religione, di natura, di silenzio. Con quel fisico che tanto intralciava l’insegnamento delle ginniche nozioni. Ma per me eri bellissima, la più bella: eri la mia maestra preferita. Anche perché non ne avevo due. Le tabelline, le prime addizioni-sottrazioni-moltiplicazioni-divisioni, le poesie da imparare e la storia da memorizzare. Le opere d’arte da scrutare, i romanzi da leggere, i teoremi da dimostrare. E quelle tempestose mattine in cui, forse stanca dalle lunghe notti d’aggiornamento, t’affacciavi scura in volto, un po’ nervosa, schiva nella tenerezza.

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Ma tu eri sempre la mia maestra. Di sera con mamma e papà, al mattino con te, nei meriggi in compagnia del nonno contadino e della nonna catechista-massaia. Mi sentivo sempre a casa. Un "bravissimo" sul quaderno – con quella grafia che tante volte cercai d’imitarti – era per me un cimelio prezioso: lo barattavo con un giro in bici, con un’ora in più di corsa sul prato, con un gelato nelle afose estati paesane. Ci siamo frequentati quattro primavere e altrettanti inverni. Poi tu hai sposato madonna pensione, io ho tentato altri voli. Ma ben presto scoprii che il tuo viso m’era diventato ispiratore. Perché per me sapevi di bellezza: quella che mi avevi mostrato, insegnato a pitturare, addestrato nel leggerla tra le righe. Eri maestra. E come tale m’hai presentato Pitagora, Gianni Rodari e Renzo Tramaglino. Oltre ad Archimede, Cristoforo Colombo e Marco Polo. Eri donna. Da donna m’hai addomesticato con la pazienza, l’eleganza, la dolcezza. Eri madre: al par delle madri amavi leggere i silenzi nel mio sguardo fuggitivo.
Raccontano che tra l’argine e il bosco ci stesse la povera chiesa e il piccolo campanile del Mazzolari sacerdote. Appresi più tardi che tra il torrente e il campanile abitava una donna che m’addentrò nell’italiano lessico ostacolata da silenzi di commozione.

Era tanta la passione che l’animava, che ancor oggi – allo strillare di qualche campanella – m’alzo in piedi sperando di vederla varcare la soglia.
E sedersi in cattedra. Per insegnarmi l’eleganza del vivere.

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